«Deluso dalla fine della legge Zan? Quello che stanno facendo molti politici è un teatrino triste, dall'esultanza per la fine della legge ai rimpalli sul voto. Continuano a parlare di noi fra di loro, senza far parlare noi, e senza parlare con noi. A parte il contatto costante che c'è stato in questi mesi con il Pd tramite Monica Cirinnà e con Alessandra Maiorino dei Cinque stelle, gli altri chi li ha mai visti? E secondo me loro sono più deluse di noi. Noi ce lo aspettavamo. Noi dal 15 maggio scendiamo nelle piazze, facciamo incontri, convegni, lavoriamo su tutte le riforme. Andremo avanti. Le nostre piazze non sono finite». Milo Serraglia, romano, 44 anni, attivista. Fa il rider. «Sto cercando di ottenere la carriera alias come Milo, per non lavorare con il nome femminile. L’ho già ottenuta da altre piattaforme». Dice «andremo avanti», intende le prossime date, dopo le 50 piazze in 50 città contro la bocciatura della legge Zan: il 20 novembre in tutta Italia si svolge il Transgender Day Or Remembrance; a Roma coinciderà con la Trans Freedom March. 

Un coming out, anzi due 

Milo ha fatto un coming out. Anzi due. «Il primo, vent'anni fa, non è stato facile. Era peggio di oggi, anche nelle famiglie evolute come la mia. È stato pesante, ci sono stati allontanamenti. Poi tutto si è risolto. Quest’altro coming out, tre anni fa è stato molto diverso». F to M,  female-to-male, da femmina a Milo. «Mia madre mi ha detto: abbiamo tutti un'età, dobbiamo pensare a stare bene, fai come ti senti. Il conflitto comunque un po' resta. Quando una persona fa la transizione tutta la famiglia fa una transizione. Non è facile per me ma neanche per loro». Milo è nato nel 1977, il padre ha fatto il ‘68, la madre ha partecipato alle lotte femministe, divorzio, legge 194, «quell'aria a casa si respirava». Ma il conflitto resta. Quando ha capito di essere Milo «ero convinto di non voler fare una transizione medicalizzata. Quindi ero rassegnato a un iter più lungo per avere il cambio dei documenti. Però quando inizi un percorso c'è l’iter pubblico, ma ho avuto anche un supporto privato tramite la rete Lgbtqia+. Adesso mi sono cambiate le prospettive, devo finire gli esami clinici, poi fare la visita con l'endocrinologo per la terapia ormonale. Tre anni fa non ci pensavo».

Domanda sbagliata

E poi esce la domanda sbagliata: prima come si chiamava? «Questa domanda non si dovrebbe fare», il tono è pedagogico e paziente, «Al 99 per cento la persona trans non la gradisce. Il nome dato alla nascita è il deadname, nome morto, che non usiamo più e non avremmo mai voluto usare. Ci sono persone che ne parlano. Ma il modo di porsi con rispetto è aspettare». Per una cronista domandare è lecito. «C'è un motivo. Il più delle volte questa domanda è l'inizio del misgendering, un attacco per invalidarci. Siamo stati già abbastanza male, il deadname fa ancora soffrire. Ma non significa che una persona non è risolta, semplicemente che ha un dolore verso il passato socializzato al maschile, o al femminile». E invece Milo: un desiderio di tutti, da bambini, cambiarsi nome, o da grandi, come uno scrittore che battezza i suoi personaggi. Perché Milo? «Volevo un nome con la stessa iniziale del mio nome precedente. Ne ho parlato con amici e amiche. Ho fatto una lista scaricando i nomi da ilmiobambino.com. Alla fine ho scelto».

A cosa serve la Zan

Torniamo alla legge, e in concreto: senza la Zan qual tutela legale le manca? «Intanto per l'ennesima volta ci manca un atto di civiltà e di presa di coscienza del mondo adulto nei confronti delle giovani generazioni. Per l'ennesima volta una élite dice: sì, riconosciamo che esistono i diritti delle persone che avanzano dei diritti, ma o ve ne prendete un pezzettino per volta o non ve ne diamo per niente. Per noi la legge Zan era un accordo al ribasso: pochi fondi, tutta in difesa contro la solita scemenza, l’inesistente teoria gender, un’invenzione». 

Iniziamo dall’articolo 1, le definizioni che hanno fatto saltare il banco:  «per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

«Queste delle definizioni è una storia incredibile. Le ha volute la ministra Bonetti. Poi Italia viva ha detto che non andavano bene. In realtà non volevano più “identità di genere”, ma era inutile toglierla dalla legge visto che ormai è scritta nelle sentenze, nelle leggi italiane e internazionali».

Non basterebbe introdurre le aggravanti per omofobia e la transfobia, come diceva la legge di Ivan Scalfarotto? «No. Le aggravanti servono. Tutte. I “futili motivi” vanno bene per la lite in un parcheggio.  Lo dice lo stesso Oscad, l’osservatorio anti discriminazioni delle forze dell'ordine: c'è un sottodimensionamento delle statistiche dei reati per omofobia e transfobia, non li possono registrare come crimine d’odio e quindi vanno nella casella "altro". Servono perché nel rimpallo fra attenuanti generiche e aggravanti perde sempre la vittima. Ci sono  persone vessate dal vicinato, o da un compagno di scuola, se la pena non raggiunge una certa pesantezza la persona vessata non può chiedere neanche il provvedimento minimo di divieto di avvicinamento». Ma perché l’identità di genere è irrinunciabile? «La commissione affari costituzionali dice che sono insufficienti omofobia e transfobia come definizioni». La “transfobia” non dice abbastanza? «No. E senza l’identità di genere, le definizioni erano insufficienti e binarie: omosessuali, lesbiche e bisessuali sono solo tre orientamenti. Del resto in una legge si possono scrivere orientamenti che sono definiti e riconosciuti in giurisprudenza, e tuttavia è necessario che la persona asessuale, pansessuale o eterosessuale sia tutelata dalla legge. Allo stesso modo l’identità di genere avrebbe tutelato persone trans e non binarie senza introdurre spaventose novità».

Una paura del genere

«La verità?», è la conclusione, «è che la formula identità di genere dava fastidio, perché nella legge si parlava per la prima volta delle persone trans da tutelare indipendentemente dall'aver concluso un percorso di transizione. Che poi per conclusione si intende la rettifica anagrafica, i documenti. Non capite che esistono persone che fanno coming out e che prima di arrivare alla rettifica anagrafica fanno un percorso molto lungo. Volenti o no: perché sono minori, perché il percorso è lungo e costoso. In quel tempo molto lungo le persone trans esistono lo stesso». «E quella definizione scatena le loro paure e le loro fantasie. Credono che porti al self-id all’inglese (l’autocertificazione,  ndr). Marina Terragni si è presentata in commissione al senato con disegno di unicorno per dire che le associazione lgbt lo usano per attirare i bambini. Abbiamo sentito leghisti e forzisti, e pure un magistrato, ripetere l'abominio che i gay sono pedofili, che le nostre associazioni fanno proselitismo nelle scuole per procacciarsi prede. Le donne trans ormai sono descritte come uomini lupi travestiti da agnelli per violentare le donne nelle carceri, o per vincere trofei alle olimpiadi. Degli uomini trans, come me, non se ne parla proprio, tranne Arcilesbica: sostiene che siamo lesbiche traviate dal patriarcato che ci ha fatto lesbofobiche quindi costrette a cambiare sesso».

In drag e en travesti

Alcune femministe spiegano di essersi liberate molti anni fa dagli stereotipi della donna-bambola e che sul palco del Pride di Roma due artiste facevano le gemelle Kessler. «Ma quelle sono le Karma B! E sono drag queen non trans, e le drag queen al 90 per cento sono uomini gay, e per arte fanno performance in drag, en travesti. C’è qualche femminista che ancora confonde le Karma B con Porpora Marcasciano? Non ci credo. E le donne trans esprimono molti tipi di femminile, così come le donne cis(gender, donne per le quali l’identità di genere corrisponde al sesso biologico alla nascita, ndr). Non esiste un solo modello di femminile, quello sobrio alla Laura Boldrini, quello alla Anna Maria Bernini, o le lady like del Pd. Qual è il femminile giusto e non stereotipato? La lesbica Imma Battaglia va bene e una lesbo-chic come Francesca Pascale no perché si trucca? E poi alcune femministe lesbiche dimenticano che agli albori erano considerate dalle etero come un ostacolo al femminismo “vero”».

«È lo stesso che succede a me con altri uomini trans, che spesso sono palestrati, capello corto, e barba perché se no non sei maschio. O uomo cis. E “coi capelli lunghi sembri più femmina”. E chissene frega, sono cresciuto con Sandy Marton e andava bene a tutti». 

«Il nostro movimento da tanti anni soffre di gay-centrismo. La rappresentatività è maschia e gay. Gay Pride anziché Pride. Spunta sempre quel fastidio molesto che danno le persone trans anche al movimento. Serpeggia un odioso doppio stigma: trans quindi sex worker quindi male assoluto. Se avessimo risposto noi a Davide Faraone che in diretta Facebook non riusciva a capire cos'è l'identità di genere. Non siamo statə interpellatə. Sembra sempre che alla comunità trans qualcuno debba tenere la mano, bambini salutate i signori. Lasciate parlare noi, che voi fate casino anche con i pronomi».

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