Ci ha messo tempo e fatica Carlo III a diventare re d’Inghilterra. Come a dire che anche laddove le regole della successione appaiono semplici e codificate esiste sempre un margine di incertezza che rende vane previsioni e aspettative. Così anche oggi, nei nostri paraggi, il tormentone che è ricominciato intorno all’eredità politica di Silvio Berlusconi andrebbe affrontato con una sorta di laica spregiudicatezza. O almeno, senza la solennità che invece tendiamo a dedicargli.

Il fatto è che l’eredità politica non esiste. Non solo per la banale ragione che di solito la si prende con la forza e non la si aspetta con deferente (e mai disinteressato) ossequio. Ma soprattutto perché la natura della leadership, anche la più baldanzosa, sta nascosta nelle pieghe della sua stessa fragilità. E dunque, quando il testimone passa da una mano all’altra, la cosa meno improbabile è che cada e si rompa.

Ora, l’elenco dei successori designati a suo tempo da Berlusconi è notoriamente lungo. E viene quasi da pensare che egli l’abbia stilato con lo spirito del vecchio re Lear messo in scena da Shakespeare. Invitando l’erede a dar prova di una capacità di zelante adulazione in cambio di un trono che non sarebbe mai stato davvero messo a disposizione. Così, egli ha avuto modo di credere, o far finta di credere, alle compiacenti parole delle sue Regan e Gonerille, senza mai rischiare di imbattersi nella acuminata sincerità di una improbabile Cordelia.

La prova elettorale

In realtà la procedura di ricambio di una leadership in una democrazia è la prova elettorale. E in un’autocrazia è la prova di forza. Punto. L’illusione che il potere si trasmetta di padre in figlio/a, secondo una consuetudine dinastica, serve solo ad alimentare il piccolo gossip politico. Ma non arriva quasi mai a condizionare il grande gioco che la politica è – o almeno dovrebbe essere.

In anni lontani uno storico dirigente comunista spiegava i misteri delle eredità del suo tempo e del suo mondo con un racconto ironico e paradossale. All’origine – spiegava – c’era un leader che al momento giusto si sceglieva un successore modesto, per allontanare lo spettro del declino e magari cercare di farsi rimpiangere un po’ più a lungo. Così, veniva eletta una figura manifestamente non all’altezza. Questi a sua volta, arrivato il suo turno, provvedeva a scegliersi un successore ancora più modesto. E così ancora e ancora, via via discendendo e degradando. Fino a quando l’ultimo leader, il più sprovveduto di tutti, era diventato a sua volta così inetto e mediocre da trovarsi infine a scegliere – per errore, e senza rendersene minimamente conto – il più bravo di tutti.

Il fatto è che un leader si afferma sempre all’interno di una controversia. E già questo esclude che i delfini salgano sul trono. Ma anche quando questa regola cede il passo alla sua eccezione le cose non funzionano mai a puntino. Dato che se l’erede designato si muove lungo il solco della prevedibilità se ne evince che il suo carattere non è abbastanza forte. E se invece cerca di dar prova della sua autonomia se ne ricava che il suo merito smentisce la sua lealtà.

Così, ora che ci si arrovella intorno al “dopo Berlusconi” si vorrebbe augurare che il passaggio generazionale avvenisse come richiedono le regole della buona politica. E cioè con un brusco cambiamento piuttosto che con una diligente trasmissione di improbabili consegne. È l’unicità, il fulcro della leadership. E non la sua ordinata trasmissione da un sovrano al suo discendente. Che poi, quella trasmissione tanto ordinata non è mai, neppure quando pretende di essere canonica e ubbidiente.

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