Nel coro di sostenitori della “riforma Berlusconi” della giustizia, con al centro l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, un ruolo particolare è svolto dai sindaci, apparentemente uniti, in modo bipartisan, nel rivendicare la bontà della scelta; un valido rimedio, si dice, per superare la “paura della firma” che impedirebbe agli amministratori locali di governare. Si tratta di un errore gravissimo, che non aiuta né la politica né i cittadini interessati ad una buona amministrazione. Vediamo perché.

Partiamo dalle conseguenze immediate dell’abrogazione. Dal momento dell’entrata in vigore della legge, non sarebbero più perseguibili i casi di violazione della legge o di mancata astensione in caso di conflitto di interessi, punibili solo in presenza di un ingiusto vantaggio patrimoniale o di un ingiusto danno intenzionalmente prodotti (con dolo).

Il primo caso è da tempo al centro dell’attenzione ed è stato variamente ridefinito, fino a renderlo quasi del tutto “devitalizzato” con la modifica introdotta nel 2020 (dl. n. 76, governo Conte-2). Tanto che le condanne emesse nel 2022 non hanno superato il numero di 18. Il governo in carica, con tutti i suoi corifei, argomenta: visto che era già quasi inutile, lo sopprimiamo.

Ma così si rinuncia a uno strumento necessario per tutelare il cittadino dall’abuso di potere che un funzionario pubblico (politico e non) può compiere, per un proprio interesse, anche in assenza di un patto corruttivo con un soggetto privato. Si pensi agli affidamenti diretti di appalti compiuti senza gara, consentiti oggi per la gran parte dei contratti pubblici: se un dirigente, con il concorso attivo di un sindaco, affida l’appalto a un soggetto a questi vicino, non c’è azione penale e il comportamento resta impunito.

Un regalo ai conflitti d’interesse

La strada da seguire, indicata da tempo da magistrati e studiosi del diritto penale, è quella di una maggiore tipizzazione e articolazione dei comportamenti vietati e di un miglioramento delle capacità del giudice penale di apprezzare la violazione della legge.

Nel secondo caso le conseguenze sono ancora più gravi: si elimina di fatto l’obbligo di astensione per il funzionario in conflitto di interessi. La sua violazione potrà avere conseguenze sulla validità dell’atto compiuto o di tipo disciplinare (ma solo per i funzionari professionali, non per i politici), non più penali. La politica italiana, come omaggio postumo a colui che ha impersonato il conflitto di interessi per decenni, lo cancella.

Secondo ordine di conseguenze: l’Europa e lo stato di diritto. Mentre una prossima direttiva UE mira a imporre a tutti i paesi membri il rafforzamento dei reati di abuso del potere pubblico noi, unici nell’Europa a 27, lo aboliamo tout court, con ciò anche violando le precise obbligazioni assunte dall’Italia nelle convenzioni internazionali in materia (Onu e Consiglio d’Europa). Lo facciamo quando diffuse sono le preoccupazioni europee sull’attuazione del Pnrr: le tante risorse assegnate all’Italia vanno gestite con più rigore, non con l’ennesimo atto di sottrazione del potere politico e amministrativo ai controlli indipendenti (dei giudici, della Corte dei conti).

Terzo ordine di conseguenze: di fronte a politiche di smantellamento dei presidi che in tutti i paesi civili sono posti a limitare l’esercizio ingiusto del potere, la cultura della legalità e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche rischiano di essere irreparabilmente ridimensionate.

Come fa un sindaco del Pd a non comprendere che seguire passivamente le ricette semplificatrici della destra nostrana, gli strappi alle regole, l’eterna condizione di emergenza, l’insofferenza ai controlli, la commistione istituzionalizzata tra interesse pubblico e interessi privati, portano tutta la politica, e tutte le istituzioni democratiche, a una perdita di prestigio che è riduzione della democrazia?

L’attenuazione della responsabilità

Ultima, ma non minore, conseguenza: l’ennesimo abbandono della prospettiva di una amministrazione efficace e imparziale. Dopo gli anni bui dei patti di stabilità successivi alla crisi finanziaria degli anni dal 2008 in poi, che hanno prodotto una perdita gravissima della qualità del personale pubblico; dopo che la pandemia ha messo a nudo i tanti limiti del nostro sistema amministrativo, tutti i governi che si sono succeduti da allora hanno rinunciato a migliorarlo, ponendolo al livello degli altri paesi europei.

Invece di reclutare personale di elevata competenza professionale da porre al servizio di tutte le amministrazioni (per i comuni medio piccoli, 7.500 sul totale di 8.000, con il potenziamento di unioni di comuni e di province e comuni capoluogo), ancora oggi si affronta la cosiddetta “paura della firma” con misure di attenuazione delle responsabilità del singolo funzionario (l’abuso d’ufficio eliminato, lo scudo erariale, nel giudizio di responsabilità amministrativo e contabile, la riduzione dei controlli), mentre l’unica strada è un’amministrazione più efficiente perché di qualità, trasparente e imparziale.

Il quadro delle responsabilità deve essere semplificato e migliorato e c’è tanto da fare. Ma non può essere soltanto ridotto. La “paura della firma” si attenua con la creazione di un’amministrazione che supporta, con le competenze necessarie, il funzionario (anche l’organo politico) nelle sue scelte; che attiva strumenti di verifica interna della qualità delle decisioni assunte. Fino a rendere l’intervento del giudice penale l’extrema ratio, di fronte a violazioni di maggiore gravità.

L’estremo paradosso che oggi viviamo sta nella riduzione del contrasto all’illegalità alla sola repressione penale, drammatizzando il ruolo dei giudici. Per poi intervenire con soluzioni di drastica e irragionevole riduzione proprio di quell’ultimo presidio. Che la destra, in nome di un liberismo ideologico e corporativo, non creda nel ruolo attivo del potere pubblico, è cosa nota. Sorprende vedere quanto queste ricette siano condivise anche da parti rilevanti del nostro centrosinistra. 

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