In un bar di Forcella, davanti a un tramezzino, ieri al segretario del Pd Enrico Letta viene riferita una “notizia” che viene considerata una mezza bomba. Ci sarebbe un sondaggio secondo il quale a Napoli la sinistra è avanti a Scampia e a San Giovanni Teduccio mentre fatica al Vomero, Chiaia e Posillipo. Il nome dell’istituto di ricerche resta coperto, dunque non resta che derubricare la “notizia” alla voce “propaganda”.

Ma nella chiacchiera serve a rafforzare la “percezione” che il Pd stia recuperando nelle periferie, come un vecchio vero partito della sinistra. Del resto a Napoli i dem stanno tentando il colpaccio: spingere al massimo il candidato Gaetano Manfredi per farlo vincere al primo turno. Nonostante alcuni handicap, primo fra tutti le cinque liste (di sinistra) che sostengono il due volte sindaco Antonio Bassolino.

Ci si prova: si raccolgono voti casa per casa, strada per strada. Dunque ieri Letta si è fatto una lunga passeggiata a piedi con il candidato e il talentuoso segretario metropolitano Marco Sarracino. Nei quartieri, tra la gente, con un drappello di giovani militanti, in un’atmosfera un po’ su di giri.

I dem sono riusciti a mettere in lista una pattuglia di rappresentanti dell’associazionismo, quello stesso a cui si rivolgono le agorà di Letta. E così ieri le strade dei voti toccano, fra le altre tappe, l’angolo del bookcrossing alla biblioteca Annalisa Durante a Forcella; e la trecentesca chiesetta di Santa Luciella ai Librai, chiusa al culto sin dagli anni Ottanta e ora recuperata grazie all’associazione culturale Respiriamo arte. «Per anni l’associazionismo ha supplito all’assenza della politica e dei partiti di sinistra, un’assenza causata solo dall’arroganza», ragiona Letta. Il segretario appare concentrato sulle amministrative, «si va dove anche dove non si prendono voti, anzi si va soprattutto dove non si prendono voti». Ma riserva anche qualche riflessione al dopo voto. A destra le comunali cominciano a disegnarsi come lo sparo che dà il via a una resa di conti fra Lega e Fratelli d’Italia. Con conseguenze imprevedibili. «Queste sono amministrative, non avranno impatto né sul governo né sul quadro politico», assicura Letta.

Il venticello favorevole

Corna facendo, e nella capitale partenopea l’espressione ha una sua plastica concretezza, per il Pd invece le cose sembrano mettersi bene. Letta giura di non fare alcun affidamento sui sondaggi, ma intanto tira un buon vento per il Pd. Nelle grandi città le rilevazioni sono quasi ovunque confortanti (i dem sarebbero avanti a Bologna, Roma, Napoli, persino a Torino la corsa di Stefano Lo Russo si è riaperta, resta al palo solo a Trieste). Per questo il leader parla di Napoli come di un «test molto significativo» per la convergenza fra Pd, M5s e Leu. Ma lo stesso test si farà «a Bologna, in Calabria, e anche nel mio collegio nel quale sono candidato Siena e Arezzo.

È il test per verificare quella che io penso sarà la prospettiva futura, una prospettiva di convergenza per una coalizione sempre più larga perché abbiamo bisogno di essere generosi e di allargarci». Sul tema delle alleanze Letta ha raccolto l’asse fra Pd e Cinque stelle, eredità della segreteria di Nicola Zingaretti.

Ma con piccoli strappi impercettibili ne ha ribaltato la trazione, anche grazie alle ripetute papere di Giuseppe Conte: l’ex premier resta il riferimento preferito del Pd, perché garante di un movimento stabilmente collocato a sinistra. Ma non è più il possibile «leader del fronte progressista», come lo definì il presidente della regione Lazio quando era in piedi il governo giallorosso. Molto dipenderà dalla legge elettorale con cui si andrà al voto, ma l’alleanza sarà guidata dal Pd. E forse proprio da suo segretario, da statuto ancora candidato premier del Pd.

Il congresso e la luna

Letta sa che se anche le elezioni dovessero andare bene al Pd, la moratoria delle polemiche interne durerebbe qualche mese. Poi ricomincerebbe il logoramento da parte delle minoranze che non si sentirebbero garantite nelle liste delle politiche. E un segretario eletto dall’assemblea nazionale e non dai gazebo ha oggettivamente una debolezza nel radicamento del partito.

Per questa ragione fra gli stessi dem “amici” di Letta c’è chi ipotizza un congresso anticipato rispetto alla data di scadenza della segreteria, che da statuto è il 17 marzo 2023, e cioè dopo la chiusura delle liste per le elezioni politiche, sempreché la legislatura vada avanti fino alla scadenza naturale.

Con Letta candidato forte, anzi invincibile, perché appoggiato da quasi tutte le correnti: la sinistra di Andrea Orlando e Peppe Provenzano, Area riformista di Dario Franceschini, e anche una parte di Base Riformista. In questo caso non ce ne sarebbe per nessuno, neanche per il candidato “in pectore” Stefano Bonaccini, che da mesi si scalda a bordo campo. Il calendario dei prossimi mesi però è un percorso a ostacoli.

Dunque le ipotesi sono due. La prima è convocare il congresso subito dopo i ballottaggi, ai primi di novembre, ma con la controindicazione delle assise in corso durante le votazioni per il capo dello stato, e il rischio che ogni tensione interna al Pd si ripercuota nell’urna (la memoria dei famosi “101” che bocciarono Prodi al Colle è ancora fresca). La secondo è convocare il congresso subito dopo l’elezione del nuovo capo dello stato; in questo caso la controindicazione è che se il Pd non dovesse riuscire ad eleggere un presidente gradito la posizione di Letta si indebolirebbe di colpo.

Il 6 settembre Letta aveva bocciato severamente questa discussione, che pure era trapelata sui media: «Parlare di congresso oggi è lunare. Tutto il partito e tutte le aree culturali sono impegnate, palmo a palmo, in una campagna elettorale che tra amministrative, regionali e suppletive coinvolge milioni di elettori. Parlare di conte e liste per i posti in parlamento è uno schiaffo ai militanti impegnati con passione sui territori per battere le destre». Ma parlarne dopo il 18 ottobre, cioè dopo i ballottaggi, potrebbe essere assai meno lunare anche a giudizio di Letta.

Prodi acido su Mattarella

Azzeccare la scelta del Colle, dopo le amministrative, è l’altra prova del fuoco di Letta. Va detto che il borsino di palazzo dà in calo l’opzione preferita del Pd, e cioè il secondo mandato di Sergio Mattarella.

Il «partito delle istituzioni» giudica troppo pericoloso rischiare di dover consegnare il Quirinale, dopo le elezioni del ‘23, a un sovranista eletto dal centrodestra. E ieri anche Romano Prodi indirettamente ha indicato l’inopportunità di una rielezione di Mattarella, rispondendo a una domanda sull’esistenza di una sua candidatura alla presidenza della Repubblica: eventualità esclusa «perché ho 82 anni e per un incarico settennale è un’incoscienza». Il 23 luglio scorso Mattarella ha compiuto 80 anni.

Franceschini per Letta

Ma quella del Colle sarà un’altra storia. E a prescindere dall’esito, nel Pd c’è chi ha già escluso il congresso. È il ministro della cultura Dario Franceschini, che negli scorsi mesi si è tenuto alla larga dai posizionamenti interni. Ma lo scorso 15 settembre da Siena, dov’era andato a dare una mano al segretario per la corsa al seggio delle suppletive della camera, ha impartito un’indicazione di prospettiva: «Il segretario del Pd ha preso il partito in un momento di difficoltà e lo sta gestendo con grande autorevolezza, con grande senso di responsabilità e unità del partito. Mi pare che ci fosse bisogno di questo e che ci sia bisogno fino alle elezioni del 2023».

Niente conta, dunque. Anche nell’area della sinistra, che non disdegna di chiudere la partita con gli ex renziani, alla fine questa ipotesi viene considerata la più realistica: «Il congresso o si fa subito o certo non si può fare a ridosso delle politiche. Perché Base riformista, che fin qui ha preso atto della sua scarsa forza, si scatenerebbe per recuperare posizioni e percentuali per le proprie quote nelle liste», viene autorevolmente spiegato, «abbiamo un segretario pienamente legittimato. Del resto era nei patti: alle dimissioni di Zingaretti, Base riformista ha chiesto un segretario di transizione verso il congresso. Invece l’accordo è stato sul fatto che Letta potesse lavorare fino a fine mandato, come prevede lo statuto». Dunque marzo 2023. Dopo aver messo la sua firma in calce alle liste delle politiche.

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