Nei giorni scorsi una piccola comunità di cittadini ed intellettuali, tra i quali l’estensore di questo articolo, ha sottoscritto una lettera indirizzata ad Enrico Letta, segretario del Partito democratico, richiamando l’attenzione sulle vicende politiche della Campania, che vedono, ormai da almeno un decennio, un unico protagonista sul palcoscenico, Vincenzo De Luca.

Nel corso di questo lungo periodo, la discussione pubblica si è intanto desertificata, per effetto di una gestione oligarchica che da un lato ha consegnato il governo delle istituzioni nelle mani di una ristretta cerchia di accoliti e dall’altro ha trasformato il dibattito all’interno del partito in un monologo di natura religiosa, che non prevede nemmeno il rito delle riunioni celebrative. Da due anni non è stato nemmeno convocato un incontro al bar della segreteria regionale.

La concezione familistica in Campania si è ristretta intanto in modo formidabile, sino a comprendere in via ormai esclusiva il perimetro della famiglia nucleare del governatore.

Non si contano nemmeno le uscite pubbliche di Vincenzo De Luca nelle quali viene manifestato disprezzo per le istituzioni e «leaderismo cacichistico», come direbbe Giulio Sapelli, uno dei firmatari della lettera.

Ma la questione sollevata non riguarda tanto la figura del presidente della regione, quanto la traiettoria del futuro nel rapporto tra classe dirigente ed elettori.

De Luca è la metafora di una questione di interesse generale. La società italiana, non solo quella campana, è ormai da decenni paralizzata dentro uno schema che ha determinato il declino nello sviluppo economico e il crollo della partecipazione alla vita democratica.

Nel Mezzogiorno questi dati sono particolarmente accentuati, ma le percentuali di fuga dalle urne sono arrivati a soglie di guardia, non solo al sud. Nelle elezioni comunali a Napoli dell’ottobre scorso ha votato meno della metà degli aventi diritto.

Eppure, restano senza dibattito le ragioni di questa fuga degli elettori.

Nel deserto dei Tartari della partecipazione alla politica, De Luca ha dichiarato che intende farsi approvare una legge dal consiglio regionale per concorrere ad un terzo mandato.  

Già lo ha fatto Luca Zaia in Veneto: emerge una tendenza verso la cristallizzazione del ceto politico che chiude tutti gli spiragli di accesso alla vita pubblica.

Governare una regione per quindici anni ossifica qualunque possibilità di trasformazione. Noi vogliamo sapere se il Partito democratico intende prendere una posizione contro la possibilità di congelare il naturale ed opportuno ricambio delle classi dirigenti.

Selezione e modello di governo

Enrico Letta, e poi anche Giuseppe Provenzano, hanno dichiarato che i temi sollevati dalla lettera sono rilevanti e daranno risposta. Mentre i vertici nazionali riflettono, proviamo ad aggiungere qualche ragionamento complementare.

C’è un altro fronte che intendiamo aprire, e riguarda la modalità di selezionare i candidati per le prossime elezioni politiche. Si sceglierà nel buio delle stanze dei potentati locali, oppure conterà l’opinione dei cittadini elettori?

Non vorremo che, ancora una volta, Piero De Luca, figlio di cotanto padre, come è accaduto nella tornata precedente, possa essere catapultato dall’augusto genitore in un collegio salernitano e, per soprannumero, anche nel listino proporzionale della provincia casertana.

Come è noto, la recente riforma ha drasticamente ridotto il numero dei deputati e dei senatori. Proprio il dimezzamento della rappresentanza richiede ancor di più che si punti sulla qualità dei candidati, che dovranno essere espressione della società e dei territori, e non delle combriccole.

Infine, è in questione il modello di regionalismo irresponsabile che si è andato affermando in questi decenni, sotto la spinta della Lega e senza alcuna capacità di contrasto o di riflessione critica da parte della sinistra.

I presidenti delle regioni si fanno chiamare governatori: e perché? Nel lessico della politica si usa tale termine quando si è in presenza di un modello di stato davvero federale, come nel caso degli Stati Uniti o della Germania.

In Italia è stata architettata, sin dalla riforma Bassanini, una devoluzione di poteri dal centro ai territori. Si è tuttavia realizzato tale modello in forma asimmetrica, senza far corrispondere al potere le responsabilità.

Il colabrodo fiscale degli introiti pubblici è rimasto affidato allo stato centrale, mentre si è realizzato un colabrodo poderoso di spese, in larga parte assegnate al governo della periferia.

Questo meccanismo di esercizio dei poteri pubblici non ha funzionato, ha peggiorato la qualità di erogazione dei servizi collettivi e ha contributo ad allargare la forbice tra regioni meridionali e resto del paese.

Sono svariate, dunque, le questioni per le quali chiediamo una risposta al segretario del partito democratico. Ci rendiamo conto che c’è intanto la terribile guerra determinata dalla invasione di Vladimir Putin.

Non vorremmo però che, un giorno, senza che nessuno se lo aspetti, le truppe cammellate del regionalismo italiano portino l’assalto definitivo al vertice del partito democratico. Ne discuteremo in due assemblee pubbliche, il 17 ed il 23 marzo, rispettivamente a Salerno e a Napoli.

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