Coperto su tutto. Alla riunione dei suoi «grandi elettori» Enrico Letta disegna scenari globali, parla di Putin e della incipiente guerra in Ucraina, ma resta molto al di qua della trincea di un nome per il Quirinale. Il Pd, come gli alleati giallorossi, si appresta a votare scheda bianca per le prime tre chiame. Ma la decisione formale arriverà oggi, subito prima dell’inizio del voto.

Il segretario Pd aveva scommesso su Draghi al Colle. Ma con discrezione, per accompagnare verso il voto al premier i parlamentari più contrari. Il no di Berlusconi, sabato sera, ha cambiato tutto. E così Letta ha virato verso l’insostituibilità di Draghi a palazzo Chigi: «Siamo tutti consapevoli del ruolo fondamentale che sta svolgendo, in Italia, in Europa e nel mondo».

Il leader Pd ha già fatto passare il messaggio che non voterà un nome targato «destra»: non Marcello Pera, non Letizia Moratti, non Elisabetta Casellati, che è la rosa che Matteo Salvini ha fatto circolare nei giorni scorsi.

E altri nomi di questo genere, dice ai suoi, farebbero «la stessa fine di quella di Berlusconi». Dunque se non può vincere su Draghi, l’obiettivo di Letta è non perdere. Un passo falso, e la sua segreteria vacillerebbe: il segretario Pier Luigi Bersani nel 2013, dopo i flop sui nomi di Marini e Prodi, è saltato. Quindi si attesta sui princìpi generali: «C’è bisogno di un nome condiviso», «superpartes», «nessuno dopo deve festeggiare da solo perché ha vinto», «non è mettendo il cappello su qualcuno che si vince, anzi i candidati si bruciano tipo 10 piccoli indiani». Chiarendo che le destre non hanno i numeri per fare da sole. Se non può vincere, nessuno sogni che il Pd non partecipi alla partita.

E se alla fine il nome «condiviso» fosse quello di Casini, quello spinto da Renzi, per il Pd si prepara a dire che sarebbe «win win», una vittoria di tutti.

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