Quando nel tardo pomeriggio Matteo Salvini fa un passo di lato dal governo e costringe i suoi a disertare il consiglio dei ministri sulla riforma del catasto, al Nazareno si materializza il miraggio della “maggioranza Ursula”. È il sogno a lungo sognato da Enrico Letta, sin dall’inizio dell’èra Draghi. Ovvero liberarsi della Lega e procedere con lo schema di governo più ambìto, quello della Commissione europea: centrosinistra più Cinque stelle più Forza Italia.

Il segretario del Pd prova a drammatizzare la situazione e convoca sùbito i suoi ministri, i capigruppo dem in parlamento e i due vicesegretari per valutare «lo strappo della Lega». Del resto lunedì, a urne ancora aperte, un Letta incoraggiato dal vento del successo elettorale aveva chiesto «un ragionamento di chiarezza» sulla presenza del Carroccio al governo. In altre parole una verifica di governo.

Non è una novità che Letta guardi con attenzione a Forza Italia, e che speri di staccarla dal centrodestra. La novità è semmai che il primo turno delle amministrative ha fatto affiorare il ruolo delle formazioni di centro, quasi sempre alleate al Pd ma in qualche caso dolorosamente avversarie. Come a Roma Azione di Carlo Calenda, il candidato sindaco che ha preso quasi il 20 per cento e quasi 200mila voti, preziosissimi per il ballottaggio del candidato del centrosinistra Roberto Gualtieri. Calenda ha già detto che darà un’indicazione «a titolo personale». E ieri su Twitter ha buttato là quella che se non è una condizione, è certo un’indicazione politica: «Io credo che al netto di Roma, sia arrivato il momento per il Pd di fare una scelta riformista e abbandonare i Cinque stelle al loro destino. Vale anche per coloro che davvero si richiamano ai valori dei popolari europei e che non vogliono morire sovranisti».

Centrini renziani

I risultati del voto saranno analizzati dagli sherpa del Pd. Ma è un fatto che il partito di Letta si aspettava un apporto più consistente dalla sinistra a sinistra del Pd: è andata bene a Bologna, dove la Coalizione civica è la seconda forza della maggioranza di Matteo Lepore, ma non a Milano, a Roma e a Napoli. Meglio è andata alle forze “di centro”. O almeno così sostiene Calenda, che posta un grafico secondo cui nei comuni sopra gli 80mila abitanti i liberali (Italia viva, +Europa e Azione) raggiungono il 9,3 per cento. Il grafico (BiDiMedia) si può leggere in altre maniere: per esempio guardando al peso dei Cinque stelle (8,1) e a quello delle liste civiche vicine al movimento (3,2).

Ma i risultati «centristi» sono rivendicati anche da Matteo Renzi nella sua enews, dopo la solita fatwa contro i grillini: «Eleggiamo sindaci iscritti al partito in tutta Italia, siamo determinanti in moltissimi comuni, abbiamo un numero impressionante di consiglieri e assessori. Laddove c’erano le liste riformiste, i candidati di Italia viva sono campioni di preferenze (da Milano a Roma a Napoli)», «Adesso dobbiamo costruire un’area vasta di riformisti e liberali, tutti insieme» e «questo è fondamentale in vista del 2023». Cioè delle politiche. Un’area di riformisti e liberali, a cui allude anche Calenda, per il quale il voto «apre una fase di lavoro a livello nazionale».

E di cui si è già discusso a Orvieto, a metà settembre, all’assemblea dell’associazione Libertà eguale, fra grandi estimatori di Mario Draghi iscritti al Pd e non, dove il renziano Luigi Marattin ha proposto «una costituente del riformismo liberaldemocratico», che deve nascere a suo dire dal fallimento del Pd, ma evidentemente anche da quello di Italia viva. L’idea era caduta nel vuoto. Ma ora il risultato elettorale dà nuova linfa ai promessi sposi liberalcentristi.

Della partita è anche Marco Bentivogli, ex sindacalista dei metalmeccanici Cisl e fondatore con il filosofo Luciano Floridi della Start Up Civica Base Italia. «Io non amo la parola centro né la definizione libdem. Anche la parola riformista, a cui sono più legato, va ripensata», avverte, «certo, la politica ha una destra una sinistra e un centro. Ma ora bisogna riconfigurare e riedificare la politica stessa. Ed è il tentativo che abbiamo lanciato con Base Italia. Prima di tutto il grande tema è che più di un elettore su due non è andato a votare.

E l’altro è che l’agenda Draghi non ha un presidio politico. Enrico Letta fa encomiabili sforzi. Ma una parte del suo partito più si chiude e più si esalta. Non possiamo permettercelo. È il momento di riprendersi la politica e ognuno di noi dovrà fare un passo avanti». Ma chi farà la mossa? Renzi è concentrato sul Quirinale. Ed è consapevole, almeno così lascia trasparire, del fatto che il suo momento da leader è consumato.

Guerini e l’abbraccio con Letta

Un passo avanti. Per scalzare i Cinque stelle dal cuore di Letta, e sostituirsi all’alleato grillino. Missione che sembra impossibile, oltreché incerta al vaglio dell’algebra. E infatti ieri in serata, su La7, Letta spiega che tenterà l’impossibile: proporrà un’alleanza a Calenda ma anche a Conte. «Sara' quello che proporrò a tutti e due. Ma ovviamente non lo proporrò domattina, domattina parlerò agli elettori».

Anche perché ai grillini non si può rinunciare. E dentro il Pd persino nell’area di Base riformista, l’ultima ad accettare l’alleanza con M5s – che il ministro Dario Franceschini da sempre invece definisce «ineluttabile» – viene fatto notare che il risultato di Roma è una cosa diversa da quello di altri comuni. E che mettere insieme Calenda e Renzi non è facile, data l’attitudine al comando da parte di entrambi. E comunque ormai il via libera al rapporto con i grillini viene dato nientemeno che dal ministro Lorenzo Guerini, in genere cautissimo, soprattutto nelle aperture: «La linea che Letta ha evidenziato è la nostra linea», spiega, ragionando sui risultati delle amministrative, «Già alla festa nazionale a Bologna (a inizio settembre, ndr) ho spiegato che non nego l’utilità di un’alleanza con M5s. Ciò che ho contestato in precedenza era l’averne ceduto la guida. Credo invece che il Pd debba avere l’ambizione di guidarla, nei contenuti, nelle idee ma anche con gli uomini. Mi pare che questo voto mi abbia dato ragione. E mi pare che Letta stia interpretando questa ambizione».

Fino a qui la sua area ha guardato con sospetto la nascita di una formazione centrista. Per questo aveva bocciato lo «schema Bettini», cioè l’idea di un’alleanza fra Cinque stelle, un Pd di sinistra e una “cosa” di centro. La “divisione dei compiti” significa, secondo i riformisti, consegnare ad altri un pezzo del proprio elettorato. Ma il problema sembra non porsi più con il «nuovo Letta», quello che prova a fare come Scholz, cioè a fare un po’ il radicale ma anche il migliore alleato di Draghi. Certo, dopo l’elezione del Colle si porrà il tema di una legge elettorale: a sinistra scendono le quotazioni del proporzionale. Arriverà il tempo di una legge che favorisca le alleanze. Sempreché un nuovo alleato nasca davvero. Si aspettano indicazioni dalla prossima Leopolda, il 21 novembre.

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