Il Disegno di Legge che porta il nome del deputato Alessandro Zan che ne è il relatore, e che mira ad introdurre nel nostro ordinamento una serie di sanzioni penali che puniscono gli atti di discriminazione e violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, è da tempo sotto i riflettori.

Il disegno di legge Zan contempla, infatti, la previsione, nel nostro ordinamento, oltre che di una serie di nuovi reati, anche di alcune categorie giuridiche che potrebbero influenzarne il funzionamento più complessivo e che, probabilmente proprio per l’impatto di sistema che poterebbero avere, per questo sono temute da alcuni e auspicate da altri: si tratta di quelle, contenute nel primo articolo del progetto, di sesso, genere, orientamento sessuale e, soprattutto, di identità di genere.

Quest’ultima espressione rappresenta uno dei passaggi maggiormente attaccati da chi ha assunto posizioni critiche nei confronti del testo: essa mira a dare rilevanza e tutela giuridica alla percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio, femmina o altro, indipendentemente dal suo sesso di nascita o dal fatto che lo abbia successivamente mutato, anche chirurgicamente.

Ebbene, questa espressione tanto temuta da alcuni è, in realtà, ormai da tempo, utilizzata piuttosto di frequente nell’ordinamento internazionale nell’applicazione di trattati sui diritti umani, nel nostro contesto regionale da parte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e nel diritto dell’Unione europea.

I precedenti europei

La Corte europea dei diritti dell’uomo, in diverse occasioni, l’ha letta come un valore da tutelare ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, come una forma di espressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Già nel caso Schlumpf contro Svizzera, deciso ormai tredici anni fa, la Corte, infatti, ritenendo che ciò ledesse proprio il diritto all’identità di genere, accoglieva il ricorso di un soggetto transessuale che lamentava il fatto che il suo diritto nazionale consentisse alla sua assicurazione sanitaria di ritardare di ben due anni il rimborso delle spese dell’operazione di mutamento di sesso.

Anche nel caso P.V. contro Spagna, deciso un anno più tardi, nel 2010, pur rigettando il ricorso per altri motivi, la Corte considerava l’identità di genere come un importante elemento da valutare, dal momento che il ricorrente, genitore che aveva poi mutato sesso, lamentava l’incompatibilità con la Convenzione delle limitazioni al suo diritto di visita al figlio, nato prima del cambio, previste dal diritto spagnolo.

Di dieci anni fa è poi la causa P. contro Portogallo, che non faceva registrare una condanna della Corte europea solo perché, in corso di causa, le richieste della ricorrente – che era stata registrata alla nascita come maschio e che al raggiungimento dell’età adulta si era sottoposta a un intervento di conversione di genere, e che lamentava il mancato riconoscimento giuridico della sua situazione a causa dell’assenza di legislazione nazionale in materia – erano volontariamente accolte dallo Stato resistente.

La medesima categoria è utilizzata anche in una direttiva del 2011 dell’Unione Europea, che si occupa di protezione internazionale, in cui l’identità di genere è ritenuta specifico motivo di persecuzione degli immigrati.

A chi si applicano i diritti fondamentali

Ora, tutto ciò avviene perché i diritti fondamentali, riconosciuti e tutelati dal diritto internazionale si applicano, in quanto tali, a tutti gli esseri umani, senza discriminazione per motivi di nazionalità, di luogo di residenza, di sesso, di origine etnica, di colore, di religione, di lingua, o di ogni altro elemento, come l’età, la disabilità, lo stato di salute, l’orientamento sessuale o, appunto, l’identità di genere.

Questo tanto con riguardo ai diritti civili e politici (come il diritto alla vita, all’uguaglianza davanti alla legge, la libertà di espressione, ad esempio) quanto a quelli economici, sociali e culturali (come il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, all’educazione).

I diritti umani, infatti, sono per loro natura universali, interrelati e interdipendenti.

È all’interno dei diritti all’uguaglianza e alla non discriminazione, quindi, che deve essere identificato ed individuato il diritto di tutti, e anche di coloro che vantano un’identità di genere “non tradizionale” come le persone LGBTIQ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Intersessuali, Queer), a non essere oggetto di discriminazioni: questi diritti, insomma, sono già da tempo contemplati dall’ordinamento internazionale, tanto dal diritto internazionale generale, quanto dal diritto internazionale pattizio dei diritti umani, come i Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici ed economici e sociali, oltre ad esser stati ripetutamente dichiarati dai treaty bodies delle Nazioni Unite, che hanno confermato che l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono inclusi tra i motivi di discriminazione vietati dal diritto internazionale.

Le norme statali

Quanto abbiamo fin qui detto, però, non supera la necessità di prevedere norme statali specificamente dedicate alla tutela di queste posizioni. infatti il diritto internazionale impone agli Stati specifici obblighi di tutela, in particolare nei confronti delle situazioni che si verificano più di frequente nei confronti di persone LGBTIQ (attacchi violenti, pestaggi, torture, rapimenti e addirittura uccisioni mirate).

Inoltre, non sempre le norme internazionali sono suscettibili di applicazione diretta negli ordinamenti nazionali, con la conseguenza che esse, spesso, in assenza di una legislazione nazionale che le recepisca, non possono essere invocate dai singoli, per esempio, dinanzi ad un tribunale nazionale per potersi difendere da comportamenti altrui.

Ebbene, se si considera il disegno di legge Zan in questa prospettiva, esso pare avere la funzione di conformare il nostro ordinamento a questi obblighi internazionali.

Libertà di orientamento sessuale

Non è un caso, infatti, che il Parlamento europeo, appena due mesi fa, l’11 marzo 2021, abbia adottato una risoluzione con la quale riconosce il diritto di tutti di godere ovunque, sul territorio dell’Unione, della libertà di vivere e mostrare pubblicamente il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere senza timore di intolleranza o persecuzioni, e afferma di conseguenza l’obbligo delle autorità nazionali degli Stati membri, a tutti i livelli di governance, di adottare misure idonee a raggiungere questo obiettivo.

Il fondamento della necessaria tutela dell’orientamento sessuale – di ogni orientamento sessuale – è infatti già contemplato nel diritto al pari trattamento e alla non discriminazione, che è principio fondamentale dell’ordinamento dell’Unione Europea.

La necessità di norme interne specificamente volte a garantire tale tutela appare ancora più pressante se si pensa che, ancora oggi, molti Stati membri dell’Unione Europea non dispongono di leggi in materia di non discriminazione che tutelino l’identità di genere rispettando quantomeno gli standard minimi dell’Unione, che proteggono le persone dall’incitamento all’odio e dalla violenza basata sull’orientamento sessuale.

Anzi, alcuni di essi, come la Polonia e l’Ungheria, si sono addirittura recentemente dotati di normative discriminatorie, le quali, ad esempio, contemplano una definizione molto ristretta e tradizionale di famiglia.

Insomma, la previsione esplicita di un modello identitario includente come quello contemplato dal disegno di legge Zan non solo sarebbe del tutto compatibile con il quadro giuridico internazionale ed europeo, ma, se vista in quel contesto, potrebbe scoprirsi addirittura dovuta, al fine di conformare l’ordinamento italiano agli obblighi internazionali ed europei di cui abbiamo detto, anche in considerazione del fatto che l’art. 117 della nostra Costituzione prevede l’obbligo, per il Parlamento, di legiferare nel rispetto degli obblighi di diritto internazionale, appunto.

Il Disegno di legge, quindi, rappresentando una norma di adattamento del nostro ordinamento interno agli obblighi che derivano all’Italia dal diritto internazionale dei diritti umani, e dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, potrebbe rappresentare un’ottima occasione per rinforzarne ulteriormente la compatibilità con i principi internazionali e sovranazionali di garanzia dei diritti dell’uomo.

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