Il progetto del Partito democratico è nato anche per imitazione del modello americano del partito “big tent”, la grande tenda sotto la quale convivono sensibilità diverse.

Il primo segretario, Walter Veltroni, aveva precettato perfino gli slogan obamiani per sottolineare che quell’esperienza era il riferimento fondamentale, ma non si trattava soltanto di apparentarsi con il leader democratico più amato di quella stagione: la questione strutturale era l’abbraccio di una visione basata sul bipolarismo come destino delle democrazie mature e sulla qualità “maggioritaria” dei partiti che si contendono il potere, in una logica quasi inevitabile e in fondo salubre di alternanza.

Il progetto è finito per l’ennesima volta con la gambe all’aria, e sarebbe troppo facile (e perfino ingeneroso) vedere nelle scarse qualità dei leader che si sono succeduti alla segreteria o nella insopprimibile litigiosità fra le correnti le differenze fondamentali con l’esperienza del partito democratico americano.

Non si poteva fare

Il primo segretario diceva che “si può fare”, e invece non si poteva fare, e la ragione per cui il partito all’americana in Italia non poteva funzionare è il divario fra i presupposti politico-culturali su cui l’impianto dei partiti si regge. Il nodo, in sintesi, è il liberalismo.

I due grandi partiti americani si muovono all’interno del perimetro liberale, ne condividono la vasta grammatica ideologica, attingono alle categorie della tradizione liberale semplicemente perché non ne hanno altre a disposizione.

Propongono modi anche radicalmente diversi, conflittuali e incompatibili di interpretare quella comune radice, ma gli Stati Uniti sono pur sempre «l’articolazione nazionale di Locke», come diceva Louis Hartz, autore del classico The Liberal Tradition in America (1955), e non hanno categorie e parole per allontanarsi troppo da quell’origine.

Dentro questo schema hanno avuto pari cittadinanza Hamilton e Jefferson, Keynes e Friedman, Roosevelt e Reagan, Buckley e Rawls, Bush e Biden.

Versioni divergenti

Nell’orizzonte americano l’idea liberale è «the only game in town», come dicono i politologi, e sul perno di questo patrimonio condiviso e indiscutibile, intrinsecamente bipolare, si sono formati partiti che ospitano al loro interno frizioni anche molto forti, ma nessuna critica davvero radicale al paradigma di riferimento.

Nell’Italia repubblicana la dialettica politica fondamentale è stata invece quella fra Dc e Pci, cioè fra il marxismo e la visione cristiana, due sistemi di pensiero ovviamente in contrasto tra loro, ma ciascuno dei quali è a sua volta, per ragioni proprie, in tensione con l’idea liberale.

Non si vuole con questo disconoscere il contributo del pensiero liberale in Italia, ma è stata una delle voci nel dibattito, non ha imposto un vocabolario politico e una forma mentale condivisa fra le forze che hanno guidato il paese.

La dialettica Dc-Pci ha prodotto esiti che ognuno può giudicare come crede, ma il punto è che non è mai approdata a una sintesi, che del resto era probabilmente impossibile ottenere in natura. Il Partito democratico, che conteneva al suo interno tesi e antitesi, si è dato l’obiettivo temerario di superare questa dialettica senza risolverla.

I suoi fondatori hanno letto con un certo ritardo brutte traduzioni dei saggi di Francis Fukuyama e si sono illusi che dando una forma vagamente anglosferica alla struttura avrebbero creato un partito adatto alla fine della storia – cioè al trionfo del modello liberale – senza rendersi nemmeno conto che la storia stava ricominciando un po’ ovunque e che in Italia non era mai finita.

Con le dimissioni del segretario Nicola Zingaretti si sono moltiplicate le voci che valutano la circostanza contingente come indicatore di un problema strutturale del partito. Spingendo questa critica alle sue estreme conseguenze si può dire che il Pd, partito in formato liberale costruito su un terreno irrorato da altre tradizioni e visioni del mondo, conteneva già all’origine il germe del suo fallimento.

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