Ha ragione Luigi Zanda: è tempo di una vera discussione nel Pd. Zanda è persona seria, ha avuto responsabilità di rilievo. Sempre leale e collaborativo con i segretari che si sono avvicendati alla guida del partito, ma sempre ragionando con la sua testa.

Su Domani ha messo in fila passaggi critici e, ai suoi occhi, specifici errori non abbastanza elaborati: le scissioni di Bersani e di Renzi, la legge elettorale, le liste bloccate e la loro gestione (esse quantomeno avrebbero dovuto sortire una rappresentanza parlamentare di eccellenza), il taglio dei parlamentari, la cancellazione del finanziamento pubblico dei partiti, i limiti dello statuto del Pd associati alle deroghe occasionali ad esso. Se non leggo male, tale pur parziale rassegna di criticità muove da un punto di vista: quello di un fiero parlamentarista che non si rassegna al tramonto della centralità di partiti.

Spero di non forzare notando che si tratta del meglio del primo tempo della Repubblica. Zanda tuttavia conosce benissimo il limite cui si era spinta la degenerazione. Non dovremmo essere immemori delle ragioni di quella svolta. In negativo: ciò che sopravviveva dei partiti era più un ostacolo che non un veicolo della volontà dei cittadini (i vertici, spesso consociativamente dietro le quinte, si spartivano i sindaci a monte del voto). In positivo, proponendosi due obiettivi: a) restituire la sovranità ai cittadini elettori, lo «scettro al principe» (Pasquino); b) propiziare una democrazia competitiva e dell’alternanza, nella convinzione che le degenerazioni traessero origine anche da una “democrazia bloccata”. È in quel frangente che si afferma il paradigma di una democrazia maggioritaria e di investitura. Si pensi al Mattarellum, alla elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione, alla istituzionalizzazione delle coalizioni, alla indicazione di un candidato premier sulle liste. Al limite della compatibilità costituzionale. Di qui la fortuna di certe locuzioni sdrucciolevoli tipo “democrazia governante” o “decidente” (Violante), che oggi viene comodo usare a una destra insofferente ai limiti e ai bilanciamenti che sono il cuore del costituzionalismo democratico. I più lucidi e consapevoli misero in conto un costo nell’equilibrio tra rappresentanza e governabilità. In concreto, un depotenziamento dei soggetti cui è affidata la mediazione politica e istituzionale tra cittadini e governo: partiti, parlamento, consigli regionali e comunali. Forse non si mise nel conto una dinamica di più lungo periodo che, complici altri fattori, con il tempo avrebbero favorito una deriva anti-parlamentarista e persino populista. Cui si devono alcuni degli errori o comunque dei cedimenti segnalati qui da Zanda.

Pietro Scoppola - uno studioso che in quella stagione ebbe una parte di rilievo - pubblicò un libro dal titolo “Dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica dei cittadini”. E certo Scoppola non è sospetto di populismo. La verità è che quel paradigma della democrazia maggioritaria e di investitura avrebbe dovuto forgiare in tempo i partiti e le istituzioni. Non ci si riuscì, per una molteplicità di ragioni (e responsabilità) che non ci è dato neppure di accennare. Trovo giusto lo stimolo di Zanda, con tre avvertenze: 1) che si approfondiscano le ragioni “teoriche” e pratiche di certi errori; 2) che le si contestualizzi nel tempo del tramonto della prima Repubblica; 3) che non ci si illuda che sia agevole resuscitare grandi partiti quali quelli che abbiamo conosciuto. Una discussione anche retrospettiva di questa portata non può essere elusa. Era stata abbozzata a monte delle primarie, intorno alla Carta dei valori Pd, ma è stata colpevolmente interrotta per mediocri ragioni di parte tra chi, come Art. 1, doveva giustificare il rientro mettendo a verbale l’insuccesso della propria avventura minoritaria e chi voleva reiterare il modello e il verbo del Lingotto veltroniani. Entrambi a dir poco datati. Come se, da allora, nulla fosse successo in Italia e nel mondo.

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