Le biografie parallele di Giacomo Possamai ed Elly Schlein insistono tutte sull’unico punto di intersezione: Barack Obama.

La radicale segretaria del Pd e il centrista neosindaco di Vicenza, che in campagna le ha garbatamente chiesto di non rompere gli endorsement, hanno prestato servizio volontario nelle campagne elettorali dell’ex presidente democratico, ed entrambi raccontano le loro esperienze americane come se fosse il 1492.

Il fatto curioso è che Obama è il comune idolo politico di due esponenti che non potrebbero essere più lontani nelle spettro democratico: uno figlio politico di Enrico Letta, e perciò nipote di Beniamino Andreatta e pronipote di Romano Prodi, esemplare piuttosto raro di post democristiano di sinistra nato sul finire della Prima repubblica; l’altra una radical-progressista legittimata da Franceschini ma fluidificata nello spirito del tempo woke e dunque combattuta fra l’armocromia arcobaleno e la malinconia per il destino della classe che fu operaia.  

Obama poteva essere l’eroe di questi due mondi forse soltanto nelle illusioni ottiche della campagna del 2008, quella che ha fatto sognare gli europei più che gli americani.

Con il beneficio di un po’ di distanza storica appare chiaro che quella di Obama non è stata quella che i politologi americani definiscono una presidenza “trasformativa”, ma un pregevole esercizio di mantenimento democratico condotto all’insegna del pragmatismo.

Obama ha governato democristianamente al centro, forse perfino un po’ oltre. Non ha chiuso il carcere speciale di Guantanamo, ha trasformato l’odiata guerra al terrore di Bush in una campagna di droni politicamente più igienica, ha salvato le banche e già che c’era anche i banchieri di Wall Street, non è riuscito a imporre il salario minimo né a intervenire sui debiti studenteschi e sulle armi da fuoco, ha varato una modesta riforma sanitaria che era un (buon) correttivo dell’esistente, è stato dominatore dei rimpatri di migranti e custode attento delle politiche securitarie vigenti.

La Corte suprema ha legalizzato il matrimonio gay al quale lui inizialmente si opponeva, ha detto cose protezioniste in stile “buy american” di cui molti si sono sapientemente dimenticati, non ha dato sostegno all’onda verde iraniana e si è lavato le mani della Siria, salvo poi infilarsi nella scellerata campagna di Libia, ha ridicolizzato l’avversario Mitt Romney quando diceva che il rivale più problematico degli Stati Uniti era la Russia autoritaria e revisionista di Putin, mentre lui era certo che la vera Russia fosse quella moderata e presentabile di Medvedev. Sappiamo com’è andata a finire. 

Obama è stato un presidente di successo, ma non il propulsore del cambiamento che aveva messo al centro del suo messaggio elettorale quando i giovanissimi Schlein e Possamai s’accostavano a quella vicenda, e infatti il tramonto dell’era Obama è stato segnato dall’emergere di Bernie Sanders e di una sinistra-sinistra radicalmente alternativa al tiepido liberalismo obamiano. 

Sarà che in Italia il processo di assimilazione di quello che accade fuori dai confini è sempre particolarmente lento, ma a quasi sette anni di stanza dall’uscita della Casa Bianca, Obama vive nell’immaginario politico come essere mitologizzato e perciò estraneo al principio di non contraddizione.

Può essere il punto di riferimento politico di un sindaco centrista veneto e di una segretaria radicale cosmopolita, senza che si noti che almeno uno dei due si dev’essere perso qualche passaggio. 

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