«Una volta per entrare dovevamo fare quasi a spintoni», racconta uno dei vecchi operai. Adesso entrano alla spicciolata e non per colpa del Covid. Da un pezzo il distanziamento sociale tra i lavoratori di ArcelorMittal, un tempo Ilva e prima ancora Italsider, lo garantisce la cassa integrazione.

Quarant'anni fa erano in 22 mila ad animare il fiore all’occhiello della siderurgia italiana, la più grande acciaieria d'Europa. Adesso per il turno quello grosso delle 7 di mattina, entrano in 2.300 negli ormai sproporzionati spogliatoi - intere palazzine di quattro o cinque piani sparse nei 1500 ettari della città-fabbrica appiccicata al centro di Taranto. Alle 15 arrivano in 800 a dare il cambio, dalle 23 presidiano il turno di notte in poco più di 500.

Qualcuno è in ferie, malattia o permesso, ma almeno la metà degli ottomila dipendenti è in cassa integrazione. Poi ci sono i 1.600 rimasti nella vecchia Ilva in amministrazione straordinaria: in teoria si dovrebbero occupare della bonifica, in pratica sono in cassa pure loro.

Per convincersi che difficilmente andrà tutto bene, basta guardare le facce di chi entra ed esce dai cancelli sulla via Appia. L'indirizzo aiuta a calcolare quanto Roma sia ormai lontana da questo disperato esercito operaio: «chilometro 648» c'è scritto sulla pietra miliare.

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La fine delle speranze

Da otto anni temono la fine, appesi alla danza di surreali annunci e puntuali rinvii provenienti dalla Capitale. La settimana scorsa Domenico Arcuri - commissario Covid ma anche numero uno di Invitalia, braccio operativo del ministero dello Sviluppo economico - ha offerto ai sindacati, in videoconferenza, la solita recita dell'ottimismo articolata su tre scenari possibili: alla scadenza fissata per il prossimo 30 novembre, ArcelorMittal se ne va pagando una penale di 500 milioni e l'Ilva chiude; oppure c'è un rinvio, con i franco-indiani che tirano avanti fino a giugno 2022, e poi si vede; infine la terza prospettiva (quella su cui Arcuri si dichiara impegnatissimo), lo Stato ci mette un miliardo per diventare socio di maggioranza e propiziare scenari di decarbonizzazione e idrogeno che rendano l’Ilva green ed efficiente.

Una fiche di denaro pubblico che vale 100 mila euro a dipendente propizierebbe l'ennesima trattativa infinita, l'ennesimo tentativo di guadagnare tempo.

«La verità è che il tempo degli scenari è finito», ammette sconsolato Rocco Palombella, leader dei metalmeccanici Uil. Il sindaco Rinaldo Melucci è incredulo: «Come è possibile che, dopo tutto quello che è successo, il governo acconsenta alla permanenza di ArcelorMittal a Taranto?».

Permanenza? Magari. Molti indizi fanno credere che il settantenne Lakshmi Mittal, ricchissimo indiano trapiantato a Londra, assicuratosi che l'Ilva non faccia più paura a nessuno, si prepari all'addio, aprendo la strada alla nazionalizzazione.

Il colpo di grazia del Covid

Trovare la via d'uscita è difficile perché i sei governi che si sono succeduti dal 2012, data d'inizio dell'agonia, non hanno sciolto nessun nodo, tantomeno il più intricato: come conciliare salute e lavoro. Lo stesso problema da 60 anni. La fabbrica sta in piedi se produce almeno 8 milioni di tonnellate di acciaio all'anno, con inquinamento e tumori in proporzione.

Oggi, salute a parte, sembra un sogno impossibile. La siderurgia europea soffre da anni di sovraccapacità produttiva.

Il Covid ha fatto il resto: IndustriAll Europe, il sindacato continentale dei metalmeccanici, stima che la produzione di acciaio nel Vecchio Continente si sia ridotta del 40 per cento.

Secondo il sito specializzato Siderweb la redditività del settore è ormai all'osso. Nel frattempo Taranto ha perso clienti e ordini, perché il mercato non aspetta, e i clienti, se non sono sicuri di quantità, qualità e tempi di consegna, si rivolgono subito ad altri lidi.

I decreti per rinviare il problema

Tutto comincia con il terremoto giudiziario del 26 luglio di otto anni fa. Sigilli agli impianti, otto arresti tra cui quello del patron Emilio Riva, migliaia di operai in strada, i magistrati accusati di sabotare l’industria. «Fu l’anno del tutti contro tutti - ricorda Valerio D’Alò, segretario nazionale della Fim Cisl, all’epoca delegato sindacale a Taranto - decenni di vuoto politico, sanzionati bruscamente dalla magistratura, avevano messo operai e cittadini su trincee opposte».

La produzione è stata mandata avanti a colpi di decreti ma senza affrontare il cuore del problema: l’Ilva non regge più l’urto dell’acciaio turco, brasiliano o cinese.

Si continua a fare melina prospettando soluzioni tecnologiche inverosimili o costosissime, come se quella che è ormai la centesima società siderurgica del mondo fosse in grado di sbaragliarne 99 più forti sfoderando tecnologie che avrebbe solo lei.

Il giorno che fu arrestato Emilio Riva l’Ilva produceva 9 milioni di tonnellate d’acciaio all’anno - il triplo di oggi. Per far marciare quattro altiforni su cinque lavoravano in 13 mila, molti dei quali nel frattempo hanno accettato l’incentivo all’esodo per scommettere su una nuova vita e aprire una propria attività. Quei 1.500 ettari di stabilimento erano il cuore pulsante dell'industria meccanica nazionale, che ritirava tre quarti dei rotoli di lamiera prodotti.

Riva rivendicava di generare ogni anno per la Puglia un valore di oltre 900 milioni di euro, l’80 per cento dei quali rimaneva nella provincia di Taranto. Nella rovente estate del 2012 cambia tutto.

La procura di Taranto, che aveva già ottenuto per Riva due condanne definitive per inquinamento, dice basta. L'Ilva vivacchia per qualche anno, gestita dai commissari (avvocati e commercialisti) che promettono a vuoto il rilancio. Poi il governo Renzi decide di trovare un partner industriale che si accolli il gigante.

È il 5 gennaio 2016. Due anni di trafila burocratica e la spunta ArcelorMittal, leader mondiale dell'acciaio, accolta dai tarantini con un dubbio che ancora non è stato fugato: è calata in fondo allo Stivale per rilanciare l'Ilva o per dare il colpo di grazia a un potenziale concorrente?

Anche il presidente della regione Puglia Michele Emiliano se lo chiede, e si risponde: «L’unico scopo di Mittal è sempre stato evitare che la fabbrica cadesse nelle mani di un concorrente e acquisirne clienti e quote di mercato».

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I veri piani di Mittal

ArcelorMittal in una prima fase manda come amministratore delegato un suo manager, il francese di 42 anni Matthieu Jehl, un alieno costretto a muoversi in un contesto avvelenato da anni di inquinamenti di ogni tipo. Dopo neanche un anno, però, la famiglia Mittal rovescia il tavolo.

I conti non tornano e il governo Conte 2, eliminando il cosiddetto scudo penale per i manager dell'Ilva, gli dà l'occasione. Il 15 ottobre 2019 chiamano al comando una delle manager italiane più gettonate, Lucia Morselli, che alla ThyssenKrupp di Terni, quella degli acciai speciali, si è conquistata la fama di tagliatrice di teste ma è soprattutto molto più avvezza di Jehl agli arabeschi della politica italiana.

Il 4 novembre ArcelorMittal chiede la rescissione del contratto di acquisto dell'Ilva, dando inizio all'ultima puntata della telenovela, quella che dovrebbe chiudersi il prossimo 30 novembre.

Morselli interpreta la schizofrenia di una storia in cui chi ha comprato l'acciaieria è disposto a pagare per liberarsene e chi gliel'ha venduta è disposto a pagare per lasciargliela. Si muove tra Milano a Taranto su un aereo privato, ma mangia alla mensa e dorme nella foresteria dello stabilimento. Concede selfie sorridenti ai lavoratori, ma non gli risparmia licenziamenti e sospensioni.

La "lady d’acciaio" dà il via a una rivincita  sovranista del management. Assume uomini e donne italiani, naturalmente di sua fiducia, e promuove chi ha già esperienza nello stabilimento tarantino. Loris Pascucci, dopo molti anni in acciaieria, diventa capo dell’area a caldo.

Nella travagliata e strategica area commerciale l'ultimo cambio è avvenuto dieci giorni fa, con Alessandro Faroni al posto di Carlo Malasomma. Mossa da leggere alla luce di un’indiscrezione  mai smentita dell’agenzia londinese Argusmedia: da qualche giorno il gruppo ArcelorMittal e Am Italia operano come due entità commerciali distinte.

In this picture taken Friday, Aug. 17, 2012, the ILVA steel plant is seen in Taranto, Italy. An Italian Cabinet official warns Monday, Aug. 13, 2012, a judge's decision to close the ILVA steel plant employing thousands on environmental grounds will cripple the government's industrial policy. The plant was ordered closed after health studies showed an elevated incidence of cancer in the area. The plant's operators say toxic fumes have already been reduced. The plant employs 12,000 and accounts for 75 percent of economic production in Taranto province. (AP Photo/Paola Barisani)

I due altiforni rimasti

Le cose non vanno. Cassa integrazione, impianti in letargo. In marcia restano solo due altiforni, Afo4 e Afo1. L’altoforno 2 è fermo da marzo per il calo delle commesse e per i lavori di messa a norma: cinque anni fa in quell’impianto perse la vita l’operaio Alessandro Morricella, investito da un getto di ghisa incandescente.

Per il mastodontico Afo5, ormai spento da anni, servirebbe una profonda e costosa ristrutturazione. Afo3, obsoleto, è stato demolito. Si produce al minimo storico, in media di 36 colate di acciaio al giorno.

A fine anno si raggiungeranno forse 3 milioni e 200 mila tonnellate di acciaio prodotto. I sindacati sono sul piede di guerra. Negli ultimi mesi tutte le sigle hanno presentato segnalazioni ed esposti a Procura della Repubblica, Inps e Ispettorato del lavoro sulle precarie condizioni di sicurezza.

Per Francesco Brigati, coordinatore di fabbrica della Fiom-Cgil, il piano ormai è chiaro: «Si insegue il pareggio di bilancio tagliando sul personale e sulle manutenzioni, e abbassando il costo del lavoro attraverso il dumping contrattuale negli appalti».

 Fiom, Fim e Uilm hanno proclamato per mercoledì 25 due ore di sciopero con conferenza stampa in rete dei tre segretari generali per tentare un'ultima disperata difesa «dell'asset strategico della siderurgia italiana».

Arcuri ha giurato in videoconferenza di essere «a un punto avanzato della trattativa».

Un anno fa, quando Mittal aveva annunciato l'addio, il governo aveva trovato in extremis un compromesso sul "nuovo percorso" che dovrebbe portare entro il 30 novembre all’ingresso dello Stato nella compagine societaria.

Dopo otto mesi di negoziato fumoso c'è una sola certezza, scritta e ufficiale: ad ArcelorMittal è stato concesso un diritto di recesso «esercitabile nel caso in cui il nuovo contratto non venga sottoscritto entro il 30 novembre 2020 per qualsiasi ragione».

Il tempo è quasi scaduto. Ancora una volta l'unica alternativa alla chiusura rimane il rinvio a futuribili ambiziosi programmi. Per prendere tempo, sempre a spese dei contribuenti.

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