Italia

L’Ilva è un’illusione che resiste solo grazie ai soldi dei contribuenti

(Foto: Aleandro Biagianti / AGF)
(Foto: Aleandro Biagianti / AGF)

Chi ha comprato l'acciaieria (Mittal) è disposto a pagare per liberarsene e chi gliel'ha venduta (lo stato) è disposto a pagare per lasciargliela.

  • Domenico Arcuri - commissario Covid ma anche numero uno di Invitalia, braccio operativo del ministero dello Sviluppo economico - ha offerto ai sindacati, in videoconferenza, la solita recita dell'ottimismo articolata su tre scenari possibili: alla scadenza fissata per il prossimo 30 novembre. 
  • Dopo otto mesi di negoziato fumoso c'è una sola certezza, scritta e ufficiale: ad ArcelorMittal è stato concesso un diritto di recesso «esercitabile nel caso in cui il nuovo contratto non venga sottoscritto entro il 30 novembre 2020 per qualsiasi ragione».
  • Il tempo è quasi scaduto. Ancora una volta l'unica alternativa alla chiusura rimane il rinvio a futuribili ambiziosi programmi. Per prendere tempo, sempre a spese dei contribuenti.

«Una volta per entrare dovevamo fare quasi a spintoni», racconta uno dei vecchi operai. Adesso entrano alla spicciolata e non per colpa del Covid. Da un pezzo il distanziamento sociale tra i lavoratori di ArcelorMittal, un tempo Ilva e prima ancora Italsider, lo garantisce la cassa integrazione. Quarant'anni fa erano in 22 mila ad animare il fiore all’occhiello della siderurgia italiana, la più grande acciaieria d'Europa. Adesso per il turno quello grosso delle 7 di mattina, entrano in 2.300 neg

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