Vedendo il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che erroneamente suggerisce il nome di colle Oppio a quell’istrione di Boris Johnson che nel siparietto fotografico italiano della Cop26 ripassa goffamente i nomi dei sette colli di Roma, l’esperimento mentale viene da sé: se lo avesse fatto Silvio Berlusconi, non saremmo qui a sganasciarci dalle risate?

Non avremmo lambiccato sull’ignoranza del leader che si copre di ridicolo di fronte ai suoi pari? Non avremmo tirato fuori di nuovo la copertina dell’Economist sul premier “unfit to lead”? 

Se Donald Trump avesse preso Jefferson per Jackson, o avesse confuso la città di Washington con l’omonimo stato, non ci avremmo costruito sopra dolenti editoriali sull’anti intellettualismo e la crisi delle competenze? 

Siamo pur sempre il paese che per mezza giornata si fa beffe di Matteo Salvini perché durante una conferenza stampa dice «oroscopo» e tutti pensano che sia un errore, quando invece per una volta aveva usato la parola giusta. Non intendeva dire «oracolo», ma proprio oroscopo.

Usando «laconico» per definire il risultato elettorale di Roma, il tribuno autodidatta Enrico Michetti detto “Michetti chi?” se l’è effettivamente cercata, e si è infatti beccato una congrua dose di meme. E allora colle Oppio?, direbbe forse Giorgia Meloni.

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Il fatto più interessante della innocente, e invero divertente, scivolata di Draghi giù da un pendio che non figura nel G7 dei colli capitolini è che il premier è immune alle gaffe. Non teme l’inciampo linguistico o la battuta sbagliata, circostanze che peraltro minimizza parlando pochissimo e governando sostanzialmente in silenzio.

Quando capita, tutto è immediatamente perdonato, Draghi non perde un millimetro della sua autorevolezza e puntare i dito con questa personificazione della competenza pare un esercizio perfino sgradevole. È l’uomo che ha salvato l’euro e sta raddrizzando l’Italia, mica lo si può ridicolizzare perché ha avuto una serata sotto tono a Trivial Pursuit.

Tutto ineccepibile, naturalmente, ma per definizione il leader che viaggia al di sopra della critica non è una figura che ottiene facilmente la cittadinanza nella polis democratica. Il colle Oppio è solo una svista – non si dica un lapsus, che poi chissà dove si va a parare – ma in altre circostanze è sfuggito alle maglie normalmente strettissime della critica ciò che di problematico Draghi ha detto o omesso.

Non ha detto, ad esempio, che l’assalto alla Cgil del mese scorso è stato un attacco fascista. Mentre i media giustamente mettevano in croce Meloni perché non trovava la famosa «matrice» dell’azione squadrista, Draghi si è limitato a fare una dichiarazione di solidarietà generica e con pochissimi aggettivi. Nella nota di palazzo Chigi il presidente ha condannato «le violenze che sono avvenute oggi in varie città italiane», aggiungendo che «il diritto a manifestare le proprie idee non può mai degenerare in atti di aggressione e intimidazione». Sono cose che avrebbe potuto dire un Salvini qualsiasi. 

Nessun accenno alla natura fascista o squadrista dell’attacco, specificazioni urgentemente richieste a tutti gli attori politici e inspiegabilmente non pretese (o rinfacciate) al presidente del Consiglio, che poi ha superato le note ufficiali con il simbolico abbraccio con Maurizio Landini, ma alla prima occasione ha fatto capire che il suo impegno fattivo per sciogliere Forza nuova sarebbe stato tiepido.

Non bisogna leggere troppo in una gioviale disattenzione senza conseguenze, ma nemmeno troppo poco.

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