Il messaggio nella bottiglia è stato lanciato: la ratifica del Meccanismo europeo di stabilità non provoca alcun effetto immediato contro l’Italia, nessuno sconquasso. Anzi, il fondo salva-Stati rappresenta una garanzia per i paesi con elevato debito pubblico. La firma è quella tecnica del capo di gabinetto del ministero dell’Economia, Stefano Varone, che si fa portavoce del ragionamento politico, pragmatico, di Giancarlo Giorgetti: il Mes è una sorta di «problema inevitabile», che non può essere ignorato. Ed entro fine anno serve una risposta all’Ue: o sì o no, senza vie di mezzo.

Operazione verità

Giorgetti si è fatto carico di quello che nessuno vuole sentir dire, facendo leva sul ruolo di insostituibile che sa di ricoprire nella compagine ministeriale, essendo il garante dei rapporti con Bruxelles. E l'ormai famoso parere ministeriale ha avuto un’eco oltre confine, arrivando in Europa. Un monito per i colleghi ministri dell’Economia: il Mef ha fatto la sua parte, la parola spetta però al parlamento, perché il voto sul salva-Stati non è responsabilità di un singolo ministro. Lui ha potuto limitarsi a «un’operazione verità».

E così è tutto messo nero su bianco, scritto dal capo di gabinetto Varone in punta di penna, nel rispetto delle valutazioni di contabilità, come si farebbe per qualsiasi altra proposta di legge. Il ministero di Via XX Settembre ripete questa versione, pur nella consapevolezza che la motivazione tecnica finisca per sfaldare il castello di carte della propaganda politica cara a Fratelli d’Italia e Lega. Finora i partiti al governo hanno descritto il meccanismo europeo come una specie di mostro a tre teste da osteggiare e combattere con ogni mezzo, perché avrebbe minato la credibilità dell'Italia.

Invece è il contrario. Giorgetti ci teneva, a modo suo, a comunicarlo, senza una posizione ideologica e con un'analisi basata sui fatti. Il risultato? Senza l’approvazione del Mes l’Italia resta isolata in Europa e vulnerabile alla speculazione. Una notizia sgradita alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e a Matteo Salvini, vicepremier ma soprattutto leader del partito di Giorgetti.

Irritazione nel governo

Per questo a Palazzo Chigi il parere sul Mes è stato accolto con fastidio, nessuno ha fatto finta di celare l’irritazione. Meloni l’ha presa male, Salvini anche peggio: un piccolo capolavoro, quello di Giorgetti, che sul punto è riuscito a mettere d’accordo i due alleati-rivali. «Ma cosa sta facendo», si sono chiesti in tanti, stupiti dall’affronto arrivato proprio mentre si stava definendo la strategia da seguire alla Camera, con il testo piazzato dal Partito democratico per creare difficoltà alla maggioranza. La premier ha cercato un chiarimento con il ministro dell’Economia. Giorgetti ha spiegato ancora: il ministero ha dato un parere tecnico. Punto. Se poi nel documento ci sono più elementi positivi che contrari non è una ripicca, ma un fatto concreto.
D’altra parte la notizia del rapporto a pezzi con Meloni è “fortemente esagerata”, per citare Mark Twain, perché tra Palazzo Chigi e via XX Settembre il canale di comunicazione resta buono. C’è solo una diversità di vedute, tra dogmatismo e pragmatismo. Nessuno l’ha giurata a Giorgetti, che da parte sua non è tipo da badare alle ruggini. Nella partita delle nomine, dalla Guardia di finanza alle partecipate statali, ha accettato controvoglia le decisioni assunte da altri, Meloni e Salvini su tutti. E ancora: su un altro versante sta assistendo, suo malgrado, allo sgretolamento di un pezzo della riforma dello sport, scritta ai tempi del primo governo Conte. L’aveva voluta, sfidando anche in quel caso gli umori diversi nel suo partito.

Chi è venuto dopo ha congelato alcuni passaggi fondamentali di quel provvedimento, l’attuale governo con il ministro Andrea Abodi sta assestando il colpo di grazia, cancellando le modifiche sulla governance delle federazioni sportive e il limite ai mandati dei presidenti. Giorgetti, da politico navigato e conoscitore degli intrecci politici, non s'è legato nulla al dito. Solo che il suo piglio imperturbabile non è sinonimo di indolenza o arrendevolezza. Così quando gli è stato chiesto (dalla commissione Esteri della Camera) un parere sul Mes, ha fatto il suo.

L’imperturbabile Giorgetti

Le polemiche non gli hanno creato turbamenti. «È molto sereno», dice chi gli ha parlato nelle ultime ore. Non una novità. Negli anni il ministro dell’Economia ha fatto dell’impassibilità la propria cifra politica. Ha ostentato un comportamento zen nei momenti più complicati, come nel gennaio 2022, quando circolavano le voci delle sue dimissioni da ministro dello Sviluppo economico dell’allora governo Draghi. C’erano le votazioni del presidente della Repubblica, le febbrili trattative, e l’accordo sul nome di Sergio Mattarella.

Giorgetti passeggiava, prima in Transatlantico e poi nel cortile di Montecitorio, dispensando sorrisi sornioni ai cronisti che cercavano una battuta sull’ipotesi delle dimissioni che agitavano le stanze dell’esecutivo. E in effetti era più di una probabilità, lui ci pensava davvero perché aveva intravisto il tramonto di quell’esperienza politica: «Per alcuni oggi la strada porta al Quirinale, per me porta a casa». Sibillino. Ma senza scomporsi.

Fu Mario Draghi a dirgli di no, a convincerlo a restare in squadra. Giorgetti non poteva opporsi al premier che aveva definito «un fuoriclasse come Cristiano Ronaldo». È rimasto al suo posto, senza lasciar trasparire il malumore nemmeno quando, pochi mesi dopo, il suo partito ha affossato l’esecutivo astenendosi dalla fiducia al “Ronaldo italiano”. Per lui era solo la conferma di averci visto giusto, di aver compreso che con la rielezione di Mattarella l’era delle larghe intese draghiane erano finite.

Oggi su un piano diverso e in una nuova fase politica, ma con la stessa convinzione, ha deciso di far capire che la ratifica del Mes non è più un tabù. E che lentamente bisogna accompagnare Meloni e Salvini sulla via per accontentare una richiesta di Bruxelles. Perché se non lo fa lui, Giorgetti, nessun altro ministro avrebbe il coraggio di parlare di Mes alla premier e al leader leghista.

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