«Pensare allo scioglimento è un delitto politico molto grave. Conosciamo i nostri limiti ma il Pd resta indispensabile per l'equilibrio del sistema politico». Nel lungo pomeriggio di autocoscienza del Pd, in questo si trasforma la riunione della direzione, è il vecchio saggio Luigi Zanda a mettere sul piatto subito il primo punto fermo: non si riparte dall’autoscioglimento, «e nemmeno dal cambio del simbolo, che a me piace molto».

Ma il punto è: mentre per la prima volta la destra radicale guiderà il governo, il Pd deve rigenerarsi (per i riformisti) o rifondarsi (per la sinistra) procedendo a gran passi verso l’ennesima gazebata o fermandosi a riflettere più in profondità sugli errori compiuti?

Per Zanda la seconda: «Conosco i vincoli del nostro Statuto ma il tempo previsto non è sufficiente per una discussione seria, la fretta e pochi mesi possono ridurre il congresso a una semplice lotta di nomi e annullare la riflessione senza cui per noi non ci può essere salvezza», «Possiamo scegliere due strade: il gattopardismo doroteo che conserva tutto o una visione strategica, inclusiva, rivoluzionaria, che dovremmo ritrovare nei pensatori politici delle premesse».

Cosa succede fuori

Tutti contrari allo scioglimento, comunque: lo possono ripetere tutti, perché è l’unica cosa che li unisce. «Abbiamo perso le elezioni, non la dignità», attacca il vicesegretario Peppe Provenzano.

Ma quando il discorso va avanti le differenze si sentono, anche nell’analisi della sconfitta. «Non dobbiamo farci dettare la linea da quelli che se ne sono andati o non sono neanche iscritti», dice Cesare Damiano, ma «l’esperienza del Pd è fallita, è fallita la fusione fra le culture fondanti». Ma no, dice Walter Verini, già braccio destro del primo segretario Walter Veltroni, il tema vero è quello di una classe dirigente troppo chiusa in sé stessa: «Sappiamo cosa c’è fuori, cosa accade fuori? Questo è il compito di un dirigente del Pd». 

Dibattito libero, dunque, ma fino a un certo punto: c’è lo streaming, chi va al microfono deve ricordarsi che lo ascoltano cronisti e militanti. Nessuno fa il processo al segretario, del resto ha già promesso che si dimetterà.

Ma nessuno può – almeno a parole – tirarsi fuori dalle responsabilità collettive di un gruppo dirigente quasi sempre uguale a sé stesso da 15 anni (basta sentire in quanti rivendicano di essere stati fra i fondatori del Pd, anche i più giovani).

Ma dalla fondazione il Pd ha perso sette milioni di voti. E non ha mai vinto le elezioni politiche, dettaglio che viene per lo più omesso. Inutile quindi provare il tasto dell’orgoglio Pd. C’è un «non detto», secondo Matteo Orfini: «Non penso che il 19 per cento sia tanta roba. Non ho trovato una persona felice di votare Pd. La nostra è stata una sconfitta politica, profonda. Non penso che abbiamo perso perché c'è stata la guerra o perché non abbiamo avuto il tempo di completare il percorso delle agorà», come invece ha detto il segretario. 

«C’è un pezzo dei gruppi dirigenti di questo partito che non ha più fiducia in questo partito. Alcuni di noi non hanno più fiducia nella possibilità che il Pd svolga la funzione per la quale lo abbiamo fondato. Che non era di costruire un campo, ma di essere il campo. La storia di questi anni è la storia di una rinuncia alla costruzione di un progetto politico identitario. Da quando è nato il Conte-bis la nostra proposta è stata il campo largo, cioè una alleanza. Abbiamo trasformato lo strumento in fine. Non abbiamo mai immaginato di poter essere quelli che recuperavano consenso in pezzi di società, abbiamo cercato la soluzione della nostra debolezza negli altri: affidarsi prima a Conte, poi a Draghi? Non c'è la fiducia di riuscirci noi».

La più dura di tutti è Alessia Morani, ex renziana e finita in un collegio impossibile: «Per anni mi sono tenuta addosso la mia lettera scarlatta», l’allusione è la vicinanza all’ex segretario. Attacca Letta: «O ti tenevi dentro Conte o Calenda. Uno dei due dovevi averlo. Senza nessuno dei due è stata una alleanza piccola piccola», se il segretario ha spiegato che dall’altra parte «c’era un pericolo democratico, doveva rispondere con la capacità di attrarre consenso».

E invece «c’è stata una narrativa difficile da spiegare, abbiamo detto no a Cinque stelle perché erano contro Draghi e invece sì a Fratoianni», secondo Roberta Pinotti è un problema di coerenza: inutile parlare di donne «se poi non si è conseguenti», dice, intendendo le pochissime capolista e il passo indietro nel numero delle elette (il 32 per cento dei gruppi). Durissima anche Enza Bruno Bossio: «È stato l’accordo fra i capicorrente che hanno penalizzato le donne che non aderivano a quel modello». 

I tempi sono tutto

La discussione congressuale inizierà più avanti, dalla prossima direzione. Ma già si legge la trama delle divisioni: chi chiede «una discussione approfondita», come Marco Sarracino, golden boy della sinistra, chiede di rallentare i tempi del congresso, cosa che dalla parte opposta viene definito «allungare il brodo» (Morani). 

Ci vuole equilbrio, secondo il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Trovo condivisibile lo sforzo di Letta di stabilire un percorso ordinato anche sui tempi: non dobbiamo allungare il brodo, ma neanche restringerlo. Dobbiamo aprire al massimo questa fase congressuale a chi voglia partecipare anche se non appartiene al nostro partito. Partendo da idee programmi, piuttosto che da autocandidature, perché la leadership viene dopo la discussione sulle idee e i programmi». 

Serve ritrovare un’identità, secondo Anna Ascani, «abbiamo fatto la parte di quelli che sanno aggiustare tubi, ma poi non è che quando voti voti l’idraulico». 

«Dobbiamo cambiare il gruppo dirigente senza rottamarlo», dice il sindaco di Bologna Matteo Lepore, «dobbiamo aprire il Pd, a partire dagli amministratori che si sentono ignorati. A parte le primarie, per la partecipazione il Pd ha fatto davvero poco. Se deve essere un congresso finto, tanto vale fare le primarie la prossima settimana. Abbiamo chiesto agli elettori “scegli”, invece eravamo noi a doverlo fare: chi vogliamo davvero rappresentare?». «Io invece sono preoccupato per i tempi, ha fatto bene il segretario a dettarli», e cioè a fissare le primarie a marzo. 

Alle due del pomeriggio Stefano Bonaccini è già andato via. Dunque oggi non si ascolterà l’intervento più atteso, quello del candidato segretario in pectore. Non c’è polemica, c’è un fatto: il suo dovere è fare il presidente dell’Emilia-Romagna, e deve andare a inaugurare un Cineporto. 

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