«Il nostro è uno stato laico, non è uno stato confessionale. Quindi il parlamento è certamente libero di discutere e di legiferare. Ovviamente, sono considerazioni ovvie». La risposta di Mario Draghi alla «nota verbale» della segreteria di Stato vaticana che chiede di modificare la legge Zan contro l’omofobia perché violerebbe il Concordato del 1984, arriva nel tardo pomeriggio al Senato. La scena ha una regia accurata. È in corso il dibattito sulle comunicazioni sul prossimo consiglio europeo, il presidente non può parlarne di sua iniziativa, sarebbe una sgrammaticatura istituzionale. Tocca a un senatore del Pd, Alessandro Alfieri, porgli una domanda sul tema delle discriminazioni. Chiede se il Pd può contare di avere a fianco il governo «sul principio della laicità: libera Chiesa in libero stato».

Draghi risponde «senza voler entrare nel merito della questione», ma con un formidabile esercizio di stile e di perizia gesuitica. Innanzitutto rassicura Oltretevere che lo stato italiano sa quel che fa: «Il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per assicurare che le leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il concordato con la Chiesa. Vi sono i controlli di costituzionalità preventivi nelle competenti commissioni parlamentari» e «poi successivi nella Corte costituzionale». Che, alla lettera, non vuol dire che la legge Zan è ineccepibile – Draghi non entra nel merito – ma che non verrà licenziata una legge incostituzionale. Cita una sentenza della Consulta del 1989: «La laicità non è indifferenza dello stato rispetto al fenomeno religioso, la laicità è tutela del pluralismo e delle diversità culturali». È la famosa sentenza Casavola sulla facoltatività dell’insegnamento della religione, che qualifica la laicità come «principio supremo». Infine ricorda di aver sottoscritto con altri sedici paesi europei una dichiarazione contro la legge ungherese che discriminano in base all’orientamento sessuale. Messaggio che non fa felice Matteo Salvini, Giorgia Meloni e tutti gli amici italiani di Orbán. La legge Zan è affidata alle forze della maggioranza, «questo è il momento del parlamento, non è il momento del governo». Insomma se la sbrighino loro.

Il lato Pd

Enrico Letta esulta: «Ci riconosciamo completamente nelle parole di Draghi». Il segretario del Pd in mattinata fa una lettura attenta della nota verbale e si fa l’idea che nel testo non c’è niente che possa violare il Concordato. Quindi chiede ai senatori di procedere: «Il rispetto per la Santa sede e l’attenzione per la diversità di opinioni non significano in alcun modo tornare indietro. Non cambio idea, il Pd va avanti, è una legge di civiltà». Letta non vuole rispondere con toni da guerra santa all’altolà della segreteria di Stato. Frutto anche di contrasti interni alle gerarchie vaticane. Non ha però paura di affrontare questi temi con spirito laico: in queste ore di incerti segnali di Oltretevere, non può non tornare in mente l’esperienza del suo maestro Beniamino Andreatta, che all’inizio degli anni Ottanta da ministro affrontò la ben più complicata e pericolosa crisi dello Ior, l’Istituto per le opere di religione, e della liquidazione del Banco Ambrosiano.

Le parole di Draghi sbloccano l’empasse, le destre di governo, che avevano festeggiato l’aiutino di una manina santa, masticano amaro. «Parole sagge e altissime» quelle di Draghi, gongola Monica Cirinnà (Pd), «lo ringrazio per aver difeso la Repubblica, il parlamento e la loro indipendenza». A fine giornata i gruppi del Senato di Pd, M5s, Leu e Italia passano all’azione e chiedono la calendarizzazione in aula alla capigruppo subito dopo il dibattito.

Si voterà oggi o alla ripresa dell’aula. E si chiuderà la farsa delle audizioni in commissione. Il presidente il leghista Andrea Ostellari, che fin qui ha fatto di tutto per rallentare i lavori, promette di cambiare passo a condizione di cambiare la legge: «Se il patto è serio si può garantire un iter veloce in entrambi i rami del parlamento». Senza modifiche però il muro continuerà. Secondo rumors di palazzo, il leghista avrebbe avuto un ruolo nella vicenda della pubblicazione della nota. Nel Pd c’è chi sostiene che a lui l’avrebbe passata la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati. Voci, non verificabili. In realtà la questione viene affrontata al Senato perché è in quella camera che in ddl è impantanato. In serata dalle destre di governo viene assicurato che, nonostante tutto, la legge verrà cambiata. Dal Pd giurano l’opposto: meglio affrontare l’aula e i rischi di voti segreti sugli emendamenti. La maggioranza c’è, se Italia viva resta della partita. E in caso contrario, spiega Cirinnà «meglio morire in battaglia, meglio che ciascuno si assuma le proprie responsabilità».

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