Negli Stati Uniti, nelle contee con grandi metropoli (città di almeno 1 milione di abitanti) i due terzi degli elettori hanno votato per Joe Biden. Nelle contee rurali, quasi il 70 per cento ha votato per Donald Trump. È una differenza enorme, definita in queste proporzioni quattro anni fa e rimasta sostanzialmente immutata. A decidere la vittoria di Biden è stato, secondo un’analisi del Financial Times, un leggero spostamento nelle contee suburbane, quelle intermedie, dove i democratici hanno superato (di poco) i repubblicani, ribaltando la situazione di quattro anni fa.

Si cristallizzano due Americhe, ben definite sul piano geografico, agli antipodi nella visione del mondo. E i valori progressisti e della democrazia liberale tornano ad affermarsi perché una parte dei ceti suburbani sceglie di stare con le città, invece che con le aree rurali.

È un divario che riguarda tutto l’Occidente. Nel Regno Unito, la Brexit ha perso nelle grandi città, ha vinto invece nell’Inghilterra profonda, dove non a caso il reddito reale e le condizioni di vita sono al di sotto della media europea.

In Polonia, in Ungheria, i due paesi dell’Est che oggi rappresentano le maggiori spine nel fianco della democrazia europea, le forze illiberali sono al governo perché vincono in provincia e nelle aree rurali, mentre hanno difficoltà ad affermarsi nelle capitali e nelle grandi città. Ed è così anche in Francia, in Spagna. È così in Italia. Alle politiche del 2018, la coalizione del Partito democratico ha conquistato i collegi uninominali nelle grandi città, da Bologna a Milano, da Torino a Roma. In Emilia-Romagna, nelle elezioni di gennaio la coalizione di centro-sinistra ha perso nei centri con meno di 50mila abitanti.

Il senso “civico”

Il conflitto fra città e campagna è un filo rosso che attraversa tutta la storia dell’Occidente. Come un fiume carsico riemerge, di tanto in tanto, a scuoterne le fondamenta. Sì, perché proprio la città è il pilastro della civiltà occidentale, lo si intuisce anche dalle parole su cui abbiamo costruito la filosofia dei diritti e dei doveri (il «cittadino», il senso «civico»; o la stessa «civiltà», da civitas).

L’Occidente si definisce nella storia, da sempre, per il ruolo guida che le città hanno svolto, come centro di innovazione e cambiamento: un ruolo istituzionale, culturale, oltre che economico.

Nasce l’Occidente proprio dallo scontro fra le città e l’impero autocratico, uno scontro che riguarda le istituzioni e la cultura, prima ancora dell’economia. Nasce a Maratona, nel 490 a.C., quando le forze delle polis greche sconfiggono l’impero persiano.

Un evento che segna anche l’inizio dell’età dell’oro della democrazia e della potenza ateniesi, segna l’inizio di una storia di cui siamo tutti figli. Allo stesso modo l’Occidente declina quando la spinta innovatrice delle sue città si spegne, e il mondo della rendita agraria riprende il sopravvento.

Così declinano le polis greche, assorbite nel regno macedone. E come l’ascesa di Roma è innanzitutto l’ascesa di una città, e di una repubblica, allo stesso modo il suo declino è il declino di quella città, e di quella idea di res publica (declino non a caso più accentuato nella parte occidentale dell’impero, perché in quella orientale è sorta nel frattempo una nuova capitale, Bisanzio, che quasi da sola manterrà viva quell’eredità per altri mille anni).

Al volgere dell’anno Mille, la rinascita dell’Europa occidentale è la rinascita delle sue città, prima di tutto italiane. E lo splendore dell’Italia si eclisserà, poi, perché quel mondo cittadino ripiegherà sulle campagne, i borghesi mireranno a farsi aristocratici, le logiche della rendita terriera torneranno a farsi prevalenti su quelle della manifattura e dei commerci.

Ma sulla sponda atlantica, l’Occidente sarà ancora guidato dalle sue città portuali, la Lega Anseatica e quindi Amsterdam, Londra, Nuova Amsterdam (cioè New York).

La città come laboratorio

Le istituzioni dell’Occidente, il liberalismo costituzionale che evolverà nella nostra democrazia liberale, saranno quelle sperimentate dapprima nelle città del Medioevo e del Rinascimento. Si pensi alla Ginevra di Calvino, repubblica che per prima, nel 1536, istituiva la scuola dell’obbligo.

Anche la Rivoluzione francese è innanzitutto la rivoluzione di una città, Parigi, che a un certo punto si trova a combattere contro la campagna reazionaria, la sua Vandea.

Di lì a poco, nel Sud Italia, la repubblica napoletana sarà sconfitta dalle campagne sanfediste; poi però, nel 1820-21, finalmente i rivoluzionari delle città si alleeranno con i contadini, issando la bandiera della riforma agraria, ma saranno allora le armi austriache a stroncare la rivoluzione – nel Mezzogiorno la riforma agraria avrebbe dovuto attendere altri 130 anni.

Oltreoceano, la guerra civile americana è una guerra fra il mondo urbano del Nord (Boston, New York, Filadelfia), che voleva abolire la schiavitù e il protezionismo per le sue industrie nascenti, e quello rurale del Sud. Perfino la Rivoluzione russa, quella che abbatte lo zarismo, è innanzitutto una rivoluzione delle città, di Pietrogrado, Mosca; e Lenin uscirà vittorioso dalla guerra civile perché otterrà l’appoggio del mondo contadino, grazie alla riforma agraria.

Proprio come, prima di lui, avevano fatto i giacobini in Francia. Dall’altra parte, quando i nazisti in Germania diventano il primo partito, nel 1932, registrano le percentuali più basse nelle due città principali, Amburgo e Berlino. E contro Franco in Spagna, i centri della resistenza saranno Madrid, Barcellona e Valencia.  

In Oriente, in Cina  soprattutto, le cose vanno diversamente: il mondo delle campagne domina sulle città, ne determina il destino, dalla cultura alle istituzioni – un grande impero autocratico governato dalla burocrazia mandarina.

Non a caso in Cina anche la rivoluzione comunista partirà dalle campagne, a differenza che in Russia. Così come saranno contadine tutte le altre rivoluzioni del Novecento fuori dall’Occidente (in America Latina, dal Messico a Cuba, in Africa, in Asia): in una di esse, in Cambogia, gli abitanti delle città saranno addirittura sterminati.

La riscossa delle aree suburbane

Dopo la seconda guerra mondiale, in Occidente, nella nuova democrazia di massa gli elettori delle aree rurali non si mettono di traverso all’agenda di modernizzazione delle città – e ne sono ampiamente ricompensati, in termini di servizi e trasferimento di risorse. È l’epoca dei welfare state, di ambiziose politiche pubbliche.

Nel 1962, ad esempio, in Italia lo Stato nazionalizzò l’energia elettrica, per portare l’elettricità anche nei piccoli comuni montani, dove non era ancora arrivata perché al mercato non conveniva. Poi, a partire dagli anni Ottanta, qualcosa si è rotto.

Quell’alleanza politica si è spezzata. La frattura, proprio come accaduto altre volte nella storia, è oggi di due tipi: culturale ed economica. La prima investe i diritti civili, la democrazia liberale, l’immigrazione e l’apertura internazionale, perfino la scienza (dai vaccini al Covid). Pone cioè in discussione i cardini stessi dell’Occidente democratico – oggi come in passato.

La frattura economica è però quella sottostante. Deriva anche dal fatto che, negli ultimi decenni, le aree interne sono state progressivamente marginalizzate: i servizi tagliati, il welfare ridimensionato: dalla sanità ai trasporti locali, fino al divario digitale. Il passato ci offre però anche una chiave per uscire dal guado. La frattura economica si può sanare, e allora possiamo sperare che il mondo rurale seguirà le città anche sul piano della cultura e dei valori.

Come avvenuto altre volte, nella nostra storia. Sanare la frattura economica vuol dire tornare a fare politiche redistributive a favore delle aree svantaggiate, per intervenire là dove non conviene al mercato e riattivare l’ascensore sociale.

Se saprà ricomporre la frattura fra le città e le aree interne, che è poi la frattura fra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, la democrazia ritroverà anche i suoi valori. E l’Occidente la sua forza.  

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