A Luigi Zanda, vent’anni da parlamentare, chiediamo: il prossimo weekend sono convocati tre dibattiti sul centrosinistra (a Milano, Orvieto, Brescia), una coincidenza o a sinistra succede qualcosa? «Oggi qualsiasi discorso sui partiti non può prescindere dalla legge elettorale». Sembra che la prenda alla larga, invece no: «Le ultime due leggi elettorali e le liste bloccate hanno mortificato la democrazia interna dei partiti, dove c’era, e dilatato il potere dei segretari che decidono chi va in parlamento. Questo ha fatto di tutti i partiti italiani “partiti del capo”. Anche il Pd è diventato un partito del capo. Con un dibattito interno soffocato. Nel Pd, per sua cultura, questo provoca disagio diffuso, che non si manifesta apertamente. Ma c’è ed emergerà. Nel frattempo si sfoga in discussioni fuori dal partito».

Prima o poi il Pd dovrà “discutere”?

Sì. E prima o poi il Pd sarà costretto a riflettere sull’identità e sulla forma-partito. A cominciare dalla composizione della direzione e dell’assemblea nazionale, 200 e 800 membri sono troppi, non possono funzionare. Poi deve decidere se il segretario lo eleggono gli iscritti o i cittadini di altri partiti che quella domenica vanno ai gazebo. Contrapporre gli iscritti agli elettori è peggio di un errore, è ridicolo.

Sono le regole, Elly Schlein ha vinto.

La sua linea politica ha vinto nei gazebo. Ma oggi il Pd non è in partita. Per tornarci deve riprendere una discussione profonda sulla sua idea di Italia e sul posto dell’Italia nel mondo. Se vuole avere un ruolo, non può insistere sul partito del capo, dove praticamente non si discute.

Tutta colpa del capo, nessuna responsabilità dei gruppi dirigenti?

L’ho già detto. La legge elettorale dà al segretario il potere di comporre i gruppi parlamentari e così di definire i gruppi dirigenti. Accade in tutti i partiti, ma nel Pd provoca sofferenza.

Una sofferenza che sfoga in dibattiti all’esterno sui centristi e sulla nascita di un partito cattolico.

Spero che nei dibattiti venga data priorità alla politica estera e all’Europa. Meloni ha glissato sul fatto che Trump l’ha cooptata perché è funzionale alla sua politica del divide et impera in Europa. Del resto Meloni vuole un’Europa delle nazioni, ciascuna con diritto di veto che immobilizza l’Unione, e impedisce una politica estera comune, una difesa, comuni politiche economiche e industriali. Proprio quello che vuole Trump.

Fa un processo alle intenzioni?

Trump e Musk sono espliciti. Meloni li considera suoi amici. Musk considera Meloni un buon mezzo per raggiungere i suoi obiettivi politici ed economici in Europa. Persone come lui non sono amici di nessuno, solo di sé stessi.

L’amicizia di Trump ci ha aiutato a liberare Cecilia Sala.

Lo scambio di prigionieri era necessario, l’Iran ha costretto l'Italia a subire il ricatto, in ballo c’era la vita di una ragazza italiana arrestata per fare l’ostaggio. Ma nel colloquio a Mar-a-Lago è successo di più, se all’indomani Trump ha detto che «Meloni va all’assalto dell’Europa».

Su questi temi il Pd non è in partita?

Nel Pd coabitano varie linee. In Europa sull’Ucraina il Pd ha votato in otto modi diversi. E allora bisogna parlarne. Apertamente. Nelle sezioni e in direzione. Bisogna ritornare al metodo del centralismo democratico. Non lo amavo, oggi lo rivaluto.

Se il Pd è un partito plurale, deve accettare le differenze.

Sì, ma il Pd è nato per unire, non per conservare le differenze. Se vuole crescere deve affrontare le sue diverse opinioni in modo esplicito, con l’obiettivo di ridurre le distanze, non di sancire i separati in casa. Non va avanti restando imbambolato. Sono in gioco gli equilibri mondiali, il futuro dell’Europa. Il mondo è dominato dagli Usa e dalla Cina. Che si affrontano direttamente e no, circondati da potenze minori in grado di determinare pace e guerra. In questo mondo il Pd deve sapere dove stare.

Il Pd non saprebbe governare?

Per governare deve iniziare a considerare il M5s come un partito adulto, non di bambini: quando Conte fa i capricci bisogna dirglielo, con lealtà e franchezza. Girarsi dall’altra parte dicendo «Noi siamo testardamente unitari» non aiuta a formare un’alleanza matura per il governo. Le differenze ci sono, vanno affrontate. Non discutere non fa fare passi avanti. Meglio parlarne adesso che alla vigilia del voto.

Il Pd «testardamente unitario» sale nei consensi.

Il Pd sta andando bene. Io vorrei che andasse benissimo e vincesse le elezioni. Proprio perché va bene oggi, ha la forza di abbandonare la politica di superficie e andare in profondità. Ripetendo idee generali, anche apprezzabili, annunci o elementi di un piano di comunicazione, è difficile conquistare autorevolezza nella coalizione.

Vede altre personalità?

Ho già detto dei danni delle liste bloccate. Anche il degrado del parlamento che non esercita più il potere legislativo frena la nascita di leader veri e non solo capi.

Schlein riesce a contrastare la narrativa della destra di Meloni?

Meloni è abile, è a suo agio con la comunicazione. Va battuta sui contenuti politici: sull’Europa federale in primis. Ma anche sulle questioni interne: giusto chiedere interventi urgenti sulla sanità, ma serve anche una riflessione politica: dopo 50 anni di regionalismo, dobbiamo fare un bilancio sulla sanità regionale.

Intanto Meloni stravince.

Meloni, al netto di qualche nostalgia, ha preso atto che le grandi ideologie, compresa la sua, sono morte e ha scelto la linea dell’affare per affare, à la carte. Per il centrosinistra italiano serve il metodo opposto: partire dai principi democratici, dalla natura del partito, dalla nostra idea di Italia, per poi scendere al programma, alle singole battaglie. Saremmo più credibili anche nel lavoro di opposizione.

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