«Il Pd è coerente. Il mio ultimo atto da segretario è coerente. Sono ora all’ambasciata ucraina e più tardi andrò all’ambasciata russa per esprimere sostegno al popolo ucraino». Nel giorno dell’anniversario della guerra di invasione di Mosca contro l’Ucraina, il segretario uscente del Pd, Enrico Letta, fa la sua mossa finale da leader di partito.

Ribadisce una scelta di campo tenuta dall’inizio del conflitto – nessuna equidistanza fra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky – e insieme ribadisce anche la scelta più dolorosa e meno popolare della sua permanenza alla guida del Pd. Quella che lo ha portato a una rottura con le associazioni pacifiste. Il tentativo di ricucitura fatto con la partecipazione dei dem alla manifestazione, il 5 novembre scorso, è naufragato in una discreta dose di fischi.

All’ambasciata

L’Arci e le Acli, associazioni tradizionalmente orientate a sinistra, giovedì gli hanno chiesto di mettere bandiere della pace in ognuno dei 5.500 gazebo che si apriranno domenica in tutto il paese per accogliere il voto delle primarie. Una proposta o forse una sfida al partito che per primo ha indicato la strada dell’aiuto militare alla resistenza ucraina. Letta ha risposto sì, ma disposto che i vessilli arcobaleno siano accoppiati a quelli gialloblù dell’Ucraina. Perché il Pd chiede la pace ma, come ha sottolineato anche il suo più probabile successore Stefano Bonaccini, chiede «una pace giusta».

Ad accompagnarlo all’ambasciata di Kiev c’era la presidente dei deputati Debora Serracchiani, Enrico Borghi, membro del Copasir, la vicepresidente della Camera Anna Ascani e l’ex ministro degli Affari europei Enzo Amendola. Una delegazione scelta con cura perché dall’ambasciatore Yaroslav Melnyk arrivassero i dem più alti in grado nelle istituzioni.

Con i cronisti Letta ricorda di essere stato lui a spingere il governo Draghi a dare subito l’appoggio all’Ucraina invasa: «Un anno fa il nostro partito è stato il primo ad organizzare un evento per protestare contro la scellerata e infame decisione russa». Da quel giorno, in un anno, gli è successo di tutto: la caduta del governo, la rottura con l’alleato grillino, il gelo con i pacifisti.

Il suo testamento

Proprio per questo Letta non tollera per i suoi l’accusa di tentennamenti sul fronte europeista filoNato: «Continuiamo a condannare e continuiamo a chiedere che cessi l’invasione e si arrivi alla pace». Sa di aver pagato quella scelta in termini di consenso ma «il Pd ha preso una decisione che è nel suo Dna. E il suo Dna è difendere chi è aggredito. Difendere i principi di libertà e giustizia, e difendere soprattutto il fatto che il diritto internazionale sia più forte semplicemente alla brutalità della forza», una scelta, assicura, «che continuerà anche dopo di me».

Ne è certo, o quasi. Con Bonaccini, il favorito alle primarie, Letta condivide al millimetro questa posizione. Con Elly Schlein meno. La deputata movimentista un anno fa ha impiegato qualche giorno a ammettere che l’invio degli aiuti militari all’Ucraina era necessario, ma ha cercato fino all’ultimo di non allontanarsi troppo dal fronte dei pacifisti. Sforzo inutile: ora che lei dice esplicitamente sì alle armi, quel mondo la guarda con diffidenza.

Ma Letta prova a fare un testamento politico chiaro, il Pd non cambia fronte: «Domenica si eleggerà il mio successore o la mia successora e ho voluto compiere questo mio ultimo gesto da segretario del Pd per testimoniare la coerenza della nostra linea». La sua storia da leader si chiude la sera davanti all’ambasciata russa, con il sit in di protesta organizzato dalle associazioni ucraine. «Da lunedì continuerò la mia vita normale, come ho sempre fatto».

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