La piramide rovesciata è un’immagine che ben rappresenta l’Italia degli ultimi decenni. Previsione quasi sicura di un futuro in cui ci saranno più pensioni da pagare che contribuenti attivi, la piramide rovesciata raffigura l’emblema di un sistema in disequilibrio e incapace di mantenersi nel tempo. Tra le storture demografiche e di selezione perversa l’università occupa un posto a sé. Sopravvissuta ai corposi tagli del duo Moratti-Gelmini, che hanno fatto diminuire il corpo docente del 15per cento negli anni 2008-2017, l’università italiana ha recentemente ripreso in parte il suo organico dopo una politica dissennata di turnover (una nuova entrata ogni cinque pensionamenti o ogni tre pensionamenti). Essendo passato più di un decennio dall’entrata in vigore della legge Gelmini (240/2010), possiamo valutarne gli effetti sulla struttura del corpo docente.

Questa riforma aveva abolito la figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendola con un tipo di ricercatore a tempo determinato: uno di natura propriamente precaria (RTD-A) con un contratto di 3+2 anni; e un altro (RTD-B) che, dopo tre anni e con l’abilitazione da associato, può diventare professore associato. Il paradosso della riforma Gelmini sta nell’aver creato un’università di associati. Detta in questi termini la cosa potrebbe sembrare una provocazione, poiché la qualifica di professore associato (confessione: la mia qualifica!) non è certo disdicevole e una volta rappresentava il punto di arrivo di molte buone carriere universitarie.

Al giorno d’oggi, invece, rappresenta il punto di partenza, cioè il livello a partire dal quale entrano coloro che vengono stabilizzati (solitamente dopo un lungo iter di contratti di vario tipo). L’effetto, probabilmente voluto ma non dichiarato, è stato congruente con il dimagrimento degli ultimi anni: visto che la stabilizzazione del personale al livello di associato è piuttosto onerosa, e visto che le risorse dell’università sono scarse, a parità di budget un’università in cui si entra stabilmente da associati avrà meno persone di un’università in cui si entra stabilmente da ricercatori. Non c’è bisogno di ricordare che, contrariamente a quanto dice la vulgata populista, l’Italia ha molti meno ricercatori e dipendenti universitari di altri paesi simili.

Alcuni numeri per capire il rovesciamento delle posizioni. La situazione nel 2008 prima della riforma Gelmini era di 29,7per cento di professori ordinari, 28,6per cento di associati e 40,1per cento di ricercatori. Invece, nel 2020 gli ordinari erano il 25,1per cento, gli associati il 41,1per cento, i ricercatori a tempo indeterminato il 15,9per cento, gli RTD-A l’8,6per cento e gli RTD-B l’8,2per cento (completano le percentuali figure contrattuali minori). Ciò che ne risulta è una piramide più piccola e troncata a metà, fatta per lo più da associati, e in misura minore da ordinari, con fondamenta fragili di ricercatori.

Da un lato vi sono i ricercatori a tempo indeterminato in esaurimento (cioè coloro che andranno in pensione da ricercatori o diventeranno associati); dall’altro vi sono i ricercatori a tempo determinato che in percentuale sono molto pochi per reggere la base. A complicare il quadro si inserisce la riforma decisa dal governo Draghi poco prima di cadere. Accogliendo in parte le rivendicazioni sindacali di abolizione del precariato universitario, la legge 79/2022 ha eliminato gli assegni di ricerca, che solitamente costituivano la prima forma di reclutamento e di messa in prova dei neo-dottori, per sostituirli con contratti di ricerca aventi maggiori tutele.

Inoltre, ha introdotto il ricercatore tenure-track (che supera e unifica RTD-A e RTD-B) cioè una forma contrattuale che dopo un massimo di 6 anni garantisce l’entrata stabile nella posizione di associati per coloro che sono abilitati.

Il paradosso della decisione (approvata ma non ancora implementata) è che questa norma, in nome della lotta alla precarietà, restringerebbe ulteriormente l’accesso alla professione universitaria. Indubbiamente vi sono stati molti abusi nell’uso dell’assegno di ricerca. Essendo molto meno costoso di altri tipi di contratto, è stato erogato anche a figure ben più senior di giovani post-dottorato.

Ma la cancellazione di un contratto non ne elimina il bisogno, come se per risolvere i problemi dell’abuso dell’apprendistato se ne eliminasse la figura. Analogamente, i ricercatori tenure-track aboliscono l’ambiguità della figura degli RTD-A ma restringono l’accesso perché, essendo assimilabili agli attuali RTD-B, sono figure piuttosto onerose per le finanze magre dei dipartimenti.

Visto che non c’è da attendersi un maggiore finanziamento dell’università, per correggere queste storture (assenza di figure junior e piramide senza basi) si dovrebbe tornare indietro reintroducendo gli assegni e anche la figura del ricercatore a tempo indeterminato.

Vittima di un’incomprensibile campagna mediatica negativa nei primi anni 2000, il ricercatore a tempo indeterminato dovrebbe essere l’equivalente di analoghe posizioni in altri paesi (assistant professor). Il vantaggio di reintrodurre questa posizione è che, a parità di finanziamento (scarso) dell’università, permetterebbe l’entrata a tempo indeterminato di personale più giovane, rendendo così la prospettiva di carriera universitaria più accessibile per persone che non possono contare sul sostegno famigliare.

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