Forse è il documento giudiziario che più di altri spiega quali sono oggi, e come si muovono, gli organismi criminali in Italia. Sicuramente è quello che cede meno alle banalizzazioni, che prova a spostare più avanti il confine di cosa è mafia e di cosa non lo è, che supera schemi stantii e guarda più al futuro che al passato. Intanto è un atto ufficiale che dà una definizione convincente di ciò che ha rappresentato il cosiddetto sistema Montante: è una “mafia trasparente”. Quella che si vede e non si vede, quella che c'è ma non si dice, quella che il potere «non lo gestisce ma lo crea».

Lo stato perpendicolare

C'è un altro elemento, per nulla irrilevante, nella sentenza che ha condannato in primo grado Calogero Antonio Montante detto Antonello a 14 anni di reclusione: l'imputato non era accusato di mafia (ma di associazione a delinquere semplice, corruzione, intercettazioni illegali, dossieraggio), eppure nelle 1.720 pagine delle motivazioni della giudice di Caltanissetta Graziella Luparello la parola mafia si rincorre più volte confondendosi con «un potere occulto, estremamente pericoloso, non parallelo a quello statuale ma ad esso perpendicolare, in quanto intersecava le più diverse istituzioni finendo per controllarle, condizionarle o comunque influenzarle».

L'originalità che si rintraccia fra le pieghe delle motivazioni è proprio la presenza di una forma di mafia anche in assenza dell'articolo 416 bis del codice penale, l'associazione mafiosa. Questa “cosa” abbiamo provato a descriverla in tanti modi. L'abbiamo chiamata “bianca”, per distinguerla da quella rosso sangue delle stragi. O “silente”, o “sommersa”.

Con qualche forzatura io avevo scritto qualche anno fa di una mafia “incensurata”, da contrapporre a quella stracciona e censuratissima che si sta sbriciolando sotto i colpi della repressione poliziesca. Ma la sintesi più felice è indubbiamente quella della giudice di Caltanissetta: trasparente.

Cos'è, allora, questa mafia trasparente identificata in una sentenza? E' una mafia «apparentemente priva di consistenza tattile e visiva e perciò in grado di infiltrarsi eludendo la resistenza delle misure comuni anticorpali», una mafia che si è servita dei poteri dello Stato e contemporaneamente li ha usati non con la complicità dei singoli ma «con l'assedio delle istituzioni».

Assedio delle istituzioni, espressione forte ma giustificata dalle pagine successive che argomentano la condanna di Montante. E' un contesto popolato da ministri e da boss, direttori dei servizi segreti e pentiti di Cosa Nostra, generali dell'Arma e della Finanza, capi della Direzione Investigativa antimafia, prefetti, magistrati, alti burocrati, pezzi grossi di Eni e di Confindustria, presidenti di Regione.

Il ruolo di Angelino Alfano 

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In questa sentenza, pronunciata in nome del popolo italiano dopo tre anni di indagini dei pubblici ministeri - che erano partite con un avviso per concorso esterno, inchiesta tutt'ora aperta - ci sono molti indizi che conducono a qualcosa di inedito nel panorama criminale e delle relazioni fra mondo illegale e mondo legale.
Per esempio emerge prepotente la figura di un ministro dell'Interno, Angelino Alfano, così vicino all'imputato tanto da frequentarlo in pubblico anche quando era nota la notizia su Montante sott'indagine per mafia.

Significativa la battuta di un ufficiale della Finanza a un suo collega, dopo avere visto sorridenti in tivù il sospettato e il ministro dell'Interno: «Lui ad Alfano non ci dà del tu, ci dà dell'io». Va giù pesante la giudice su Alfano, parla di «un atto di genuflessione istituzionale» e commenta: «Neppure il ministro dell'Interno poteva permettersi di contraddirlo e, nel 2013, a sostegno della presunta 'primavera degli industriali' era stato persino 'delocalizzato' a Caltanissetta il Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica..». 

Un passaggio non dimentica un'altra vergogna ministeriale: a Montante, dopo l'avviso di garanzia per concorso esterno, viene addirittura rinforzata la scorta. Oscenità del potere, consumate fra prefetture e Viminale, dove il vicepresidente di Confindustria poteva contare su robuste coperture. Aveva a disposizione una sorta di polizia privata che «spegneva ogni dissenso in ambito confindustriale o giornalistico mediante l'opera di squadrismo assicurata da una Guardia di Finanza nissena, di fatto ormai privatizzata e al soldo di Montante».

Opere di squadrismo istituzionale: indagini pilotate contro i suoi nemici e indagini insabbiate sul suo conto. Uno scenario da incubo. Tutto è avvenuto in Sicilia, per una dozzina di anni e nel silenzio più cupo. Mai una voce contro, se si escludono i presidenti delle commissioni parlamentari antimafia, quella nazionale presieduta da Nicola Morra e quella siciliana presieduta da Claudio Fava.

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E pure dopo la condanna di Montante, tutti zitti. Anche Libera di don Luigi Ciotti, che si costituisce parte civile in ogni parte d'Italia, nel processo contro Calogero Montante ha scelto di non farlo. Decisione inspiegabile. Chi, più di una stimabile associazione antimafia, avrebbe potuto lagnarsi di avere ricevuto danno da una falsa antimafia, di rivendicare il diritto di sentirsi parte offesa nella vicenda?

Il golpe linguistico

La questione “mafia e antimafia” viene affrontata lungamente nelle motivazioni della Luparello con «Montante autoinsignitosi paladino dell'antimafia» e che estende tale etichetta ad amici e sodali «dichiarando mafiosi i suoi avversari, in difetto di qualsivoglia prova di mafiosità». Un sovvertimento totale delle parole con “mafia” che diventa «il luogo nominale nel quale confinare tutti gli eretici alla sua religione», con «un'antimafia industriale che, grazie alla complicità o la connivenza di soggetti appartenenti ad ambienti istituzionali diversi, era stata eretta quale laboratorio nel quale creare e distribuire posti di potere, in cambio del totale pronismo dei pubblici ufficiali».

La giudice parla di un vero e proprio "golpe linguistico” e annota: «Montante è il demiurgo non già del linguaggio dell'antimafia, ma dell'antimafia del linguaggio, che non oltrepassa la soglia delle parole, dei convegni, della vulgata mediatica, dei protocolli e delle iniziative dallo scarso risultato pratico». Proclami, la denuncia di minacce mai riscontrate, di improbabili ritorsioni subite, di "progetti destabilizzanti”. Sempre contro Montante e la Confindustria della "rivoluzione siciliana”.
Un capitolo è dedicato ai suoi legami con i servizi segreti: «Era legato da ottimi rapporti di natura personale al generale Arturo Esposito dapprima capo di Stato Maggiore dell'Arma dei carabinieri e poi direttore dell'Aisi..questo rapporto si pone in linea di continuità con quello intrecciato dal primo con il predecessore di Esposito, il prefetto Giorgio Piccirillo ...e con altri come Mario Blasco, già dirigente della Polizia di Stato ed attualmente in servizio alla presidenza del Consiglio dei Ministri..». Entrature ai vertici dei servizi, scambi di favori e di informazioni, un sistema «fondato su una sorta di soccorso mutualistico» che in qualche occasione gli è servito a sviare le indagini a suo carico o a ricevere notizie riservate. Tutti gli incontri avuti da Montante nel quartiere generale dello spionaggio, in via Giovanni Lanza a Roma, «erano connotati dall'adozione, da parte di quest'ultimo, di talune cautele volte ad ostacolare l'agevole tracciamento della sua presenza presso gli uffici dell'agenzia o, alternativamente, ad evitare possibili operazioni captative attraverso il proprio telefono cellulare». Sempre nell'ombra. Sempre con l'ossessione delle  intercettazioni.

Così faceva periodicamente bonificare le sedi di Confindustria in viale dell'Astronomia a Roma, a Palermo, a Caltanissetta, nella sua villa di Serradifalco. Come sempre «spasmodica era la ricerca di luoghi idonei per l'occultamento di documenti..». E poi le "talpe istituzionali”: uno 007 che informa l'ex presidente del Senato Renato Schifani, l'ex presidente del Senato che informa un misterioso tributarista palermitano, il tributarista che informa un altro 007 e le soffiate, alla fine, che arrivano sempre a Calogero Montante. L'obiettivo dell'antimafia dell'imprenditore siciliano: «Edificare un sistema di potere inespugnabile mediante il ricorso sistematico a pratiche corruttive e di spionaggio illecito».

L'anima e il motore di questo organismo criminale è stato un uomo “nel cuore” di un boss di Cosa Nostra che ha goduto di protezioni eccellenti e che «sotto le insegne di un'antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di dossieraggio, molte delle istituzioni pubbliche, sia regionali che nazionali, dando vita ad un fenomeno che può definirsi mafia trasparente..». Così trasparente che in molti, ancora adesso, fanno finta di non averla mai vista.

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