Appena iniziate le votazioni, c’è già un primo bilancio della manovra. Nella commissione Bilancio della Camera sono stati esaminati i primi emendamenti, a cominciare da quelli delle opposizioni: si proseguirà fino al weekend, salvo intoppi interni alla destra.

Intanto sul campo politico il quadro è già chiaro. C’è chi vince ed è passato all’incasso, come il leader della Lega Matteo Salvini, e chi invece perde ed esce decisamente male, su tutti il segretario di Forza Italia, Antonio Tajani.

La solitudine di Giorgetti

In questa manovra, lunga e tortuosa, il testacoda più eclatante è la sconfessione delle norme-bandiera dell’estensore del testo, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Voleva una provvedimento per «pescatori e operai», secondo le dichiarazioni rese alla presentazione del testo della legge di Bilancio. Ha ricevuto un testo che non concede granché ai ceti più deboli.

Il ministro aveva rivendicato la novità di inserire una sentinella del Mef all’interno dei collegi sindacali di enti e società beneficiari di risorse statali per vigilare sul corretto uso dei soldi pubblici. Il progetto è stato picconato da Forza Italia. Tajani ha detto che la norma era «sovietica». Anche tra Fratelli d’Italia e Lega è montata più di qualche perplessità sulla bontà della riforma. Così nell’ultimo vertice di maggioranza è stata stabilita una versione light con un generico potenziamento dei controlli per evitare sprechi.

Non è stata l’unica debacle per il ministro dell’Economia. La tassazione sulle plusvalenze derivanti dalle criptovalute era stata aumentata al 42 per cento nella formulazione originaria. L’aliquota resterà invece al 26 per cento almeno per il prossimo anno e salire al 30 per cento nel 2026. «Nessuna stangata sulle criptovalute grazie all’impegno e al lavoro della Lega. L’aumento della tassazione, previsto dalla manovra, sarà sensibilmente ridotto», hanno dichiarato, in una nota, i deputati leghisti Giulio Centemero e Federico Freni, che è anche sottosegretario all’Economia. Uno scenario da Lega contro Lega, o quantomeno contro la stangata di Giorgetti.

A completare il trittico di misure giorgettiane naufragate c’è l’estensione della web tax. Nelle intenzioni del ministro avrebbe riguardato qualsiasi introito legato all’attività digitale. Il ritocco, previsto durante l’iter alla Camera, limita la norma solo ai colossi della rete. A chiudere il cerchio c’è lo scivolone sul Pil. In commissione alla Camera, Giorgetti aveva promesso un risultato «sorprendente» per il 2024. L’Istat, nelle sue stime, prevede una performance al ribasso.

Meloni, invece, affronta il passaggio della legge di Bilancio con l’unica vittoria di aver portato in dirittura d’arrivo il provvedimento, sebbene manchi ancora l’ultimo chilometro, che potrebbe rivelarsi in salita negli intrecci delle votazioni in commissione. La premier ha dovuto difendere Giorgetti come fosse del suo stesso partito, limitandosi a una serie di interventi con il bilancino.

Fratelli d’Italia non ha alcuna bandiera da sventolare, apponendo la firma su una manovra esangue. E mettendo in mezzo al guado, tra color che son sospesi, i “suoi” ministri Orazio Schillaci, che sulla salute ha ricevuto meno risorse di quanto richiesto, e Adolfo Urso, che ha dovuto tamponare i corposi tagli al settore automotive.

Salvini all’incasso

Se Giorgetti e Meloni escono male dalla manovra, c’è Maurizio Lupi che, dalla postazione del suo piccolo partito, Noi moderati, ha vinto il vincibile. Ha fatto introdurre nel provvedimento alcuni interventi che aveva spinto negli incontri. Su tutti, la tassazione al 5 per cento degli straordinari degli infermieri, che il Nursind, sindacato di categoria, ha promosso: «Un buon segnale di attenzione».

Più di tutti, visto il risicato margine di azione, può dirsi soddisfatto il leader leghista Salvini. Prima di tutto, nel decreto fiscale – collegato alla manovra – ha ottenuto i 343 milioni di euro da versare alla società Autostrade dello stato, ideata dal ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, per gestire le tratte a pedaggio, sottraendole al controllo dell’Anas. Il ministro è pronto a brindare al via libera all’emendamento che porta a 14,7 miliardi di euro gli stanziamenti relativi al Ponte sullo Stretto, che ammontano attualmente a 11,6 miliardi di euro. C’è poi il mini potenziamento della flat tax.

La soglia di utilizzo sale da 30mila a 35mila euro per i redditi dei dipendenti. Uno strapuntino buono da rivendere al bazar della propaganda. Salvini ha infine portato a casa, proprio nell’ultimo vertice sulla legge di Bilancio, l’introduzione di una formula di Ires premiale. Dovrebbe essere uno sconto fiscale alle imprese che investono i loro guadagni in azienda e assumono. Un’operazione che, stando alla versione fatta circolare dal governo, prevede un prelievo di circa 400 milioni a banche e assicurazioni. Bisogna tradurre l’idea in un emendamento per garantire il mantenimento dell’impegno verbale (altrimenti sarebbe solo una vittoria di Pirro per Salvini).

Certo, la riforma delle pensioni promessa dalla Lega resta una chimera. Ma al segretario della Lega è andata comunque meglio rispetto a Tajani. Il ministro degli Esteri aveva puntato le fiches sulla riduzione delle tasse al ceto medio, con l’abbassamento del secondo scaglione delle aliquote Irpef dal 35 al 33 per cento.

Dalla riunione con gli altri leader, ha ottenuto la promessa che sarà fatto in un futuro indefinito, «dopo aver consolidato conti pubblici», come recita la fumosa formula scelta dai colleghi al governo. Gli azzurri sono rimasti a mani vuote pure sul capitolo «liberalizzazioni» e «investimenti», indicati come capisaldi della linea forzista.

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