Non bastava la sconfitta «non catastrofica» ma bruciante; la rivolta degli esclusi dalle liste e delle donne rimaste fuori dal parlamento grazie al trucchetto delle pluricandidature (consenzienti); non bastavano le frizioni sul congresso.

Adesso Enrico Letta – segretario uscente ma non dimesso, quindi titolare di tutte le grane – deve affrontare anche il pasticcio della piazza per la pace fra Russia e Ucraina. A cui il Pd rischia di non potersi neanche avvicinare. La manifestazione in realtà non è stata convocata. Non ancora, per lo meno.

Ha lanciato l’idea Giuseppe Conte sulle colonne di Avvenire, con finto understatement, cioè specificando «senza sigle e senza bandiere», magari proprio il 4 novembre, festa delle Forze armate, data in cui i pacifisti da sempre si mobilitano.

L’intenzione di intestarsi la sinistra disarmista è evidente. Poi, grazie a una spintarella mediatica, l’appuntamento ha cominciato a circolare. E così cominciano ad arrivare i sì. Il paradosso è che arrivano anche dal Pd: da Laura Boldrini a Pier Francesco Majorino. Preoccupati per la pace, ma anche che il Pd non resti definitivamente tagliato fuori dal circuito della sinistra pacifista. Per la stessa ragione aderiscono anche Sinistra italiana, rossoverdi, Socialisti e Art.1.

Il guaio è che il Pd, almeno il suo gruppo dirigente, è meglio che da un appuntamento del genere stia alla larga. Il solco scavato da marzo scorso con il mondo pacifista sull’invio delle armi in Ucraina non si è ancora colmato. Né Letta ha avuto ripensamenti, a differenza dell’ex alleato giallorosso. Giovedì alla direzione ha ammesso che «per la linea filo Ucraina abbiamo pagato un costo politico ed elettorale» ma «siamo stati dalla parte giusta della storia». Il segretario invoca l’Onu, purché il tentativo di mediazione non si configuri come una mano tesa verso Putin, in crisi militare e di consensi interni.

Ora però cominciano a farsi sentire voci che chiedono di insistere sulla pace, senza abiurare l’invio delle armi. Voci trasversali: «Dobbiamo parlare di pace più di quanto l’abbiamo fatto fino ad oggi», secondo il ministro Andrea Orlando. Bisogna «riconnettersi» con il mondo pacifista, sostiene Marina Sereni, viceministra degli Affari esteri.

«In campagna elettorale ho sentito molto la richiesta di un forte impegno per la pace», ammette il bolognese Andrea De Maria. Fino al rombo del presidente della Campania, Vincenzo De Luca, che a sua volta convoca i pacifisti a Napoli: «L’Italia e i governi non possono più essere una appendice della Nato, una segreteria distaccata del suo generale Jens Stoltenberg che per quello che mi riguarda sta dando prove di grande ottusità politica».

Resta che il mondo pacifista è vaccinato per le furbizie della politica. È vero, dice Mao Valpiana, del Movimento nonviolento, che «per noi il 4 novembre è una data simbolica, un giorno di lutto», ma «l’importante saranno i contenuti, le modalità saranno costruite tutti insieme». Ieri però Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Pace Disarmo, ha rimesso le cose in ordine: «La Rete precisa che non è stata presa ancora alcuna decisione», puntualizza. «Insieme ad altre organizzazioni, siamo impegnati nella mobilitazione “Europe for Peace”. Il prossimo appuntamento è nel weekend tra il 21 e il 23 ottobre, con mobilitazioni diffuse su tutto il territorio nazionale». Un corteo nazionale resta probabile – se ne parlerà in una riunione lunedì prossimo – sulle parole d’ordine di «cessate il fuoco immediato e per l’organizzazione di una Conferenza internazionale di pace».

Conte Arcobaleno

Invece Conte è già in marcia. Ieri dal Fatto si immaginava già alla testa della fiumana arcobaleno, alla quale invita gli elettori della destra, perché «la pace non ha colore».

Magari pensando di tentare qualche leghista o qualche forzista, i cui leader sono noti per le affettuosità nei confronti di Putin. Gli risponde Gianni Alemanno, anche lui riciclato pacifista, «purché non sia l’inizio di una strumentalizzazione».

Ma il malumore dei pacifisti, poco propensi a farsi mettere il cappello dalle forze politiche, deve essere arrivato anche al presidente del M5s. Che per rilanciare da Facebook racconta che a Bruxelles FdI, Forza Italia, Italia viva e una parte del Pd («non tutti gli europarlamentari, per fortuna», si felicita) hanno votato contro un emendamento a una risoluzione che suonava così: «Invita l’Ue e gli Stati membri a vagliare tutte le potenziali vie per la pace e a proseguire gli sforzi per porre immediatamente fine alla guerra». «Rispondetemi sinceramente. La trovate fuori luogo? Anti atlantica? Filoputiniana?».

In realtà quell’emendamento, che veniva dalla sinistra del Gue e non dai Cinque stelle, è stato votato non dai socialisti ma dal gruppo Pd, anche se tre eurodeputati, fra cui il capogruppo Brando Benifei, hanno sbagliato tasto e hanno dovuto far correggere il registro delle votazioni. No invece da Pina Picierno e Alessandra Moretti, che hanno ritenuto quel «tutte le potenziali vie per la pace» troppo ambiguo. Il testo comunque confermava gli aiuti militari.

Ma è un terreno minato per il partito del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che questa settimana è andato al Copasir a annunciare un nuovo decreto, il quinto, per l’invio delle armi a Kiev. Su cui, va detto, i Cinque stelle fanno comunque fatica a dissociarsi: vista l’evidenza che solo grazie all’aiuto internazionale oggi l’Ucraina sta riuscendo, forse, nel miracolo di ricacciare indietro l’invasore russo.

© Riproduzione riservata