Uno degli ultimi appuntamenti pubblici del settennato del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in scadenza a febbraio, è a Conversano, in provincia di Bari, questo 25 settembre. Il capo dello Stato interverrà alla manifestazione che apre le celebrazioni per il centenario dalla morte di Giuseppe Di Vagno, parlamentare socialista ucciso il 25 settembre del 1921 dagli squadristi fascisti che agirono su mandato degli agrari locali.

La cerimonia con il presidente Mattarella, spiega il comitato nazionale per le celebrazioni nato grazie all'impegno della Fondazione "Giuseppe Di Vagno" e di altri Enti pubblici e guidato dal presidente emerito della Corte Costituzionale Franco Gallo, «non sarà un evento meramente celebrativo» perché «a cento anni dall’assassinio appare necessario aggiornare il bilancio degli studi nazionali e internazionali sulle origini del fascismo, con una proiezione nella contemporaneità».

A questo scopo, dunque, in tutta la provincia di Bari, ma anche in altre città del paese, a partire dal settembre 2021 e per tutto il 2022, si terrà una sorta di maratona storica, tra convegni, lezioni, seminari per «ripensare quel tempo cruciale e terribile della storia nazionale, e, soprattutto per aiutare le giovani generazioni a rafforzare e ritrovare quella passione civile che è il nutrimento essenziale di ogni libertà». 

La presenza a Conversano di Sergio Mattarella assume una connotazione fortemente simbolica per due ragioni: anzitutto il presidente della Repubblica mentre sta per chiudersi il suo mandato ribadisce i valori antifascisti, tanto vituperati da alcune forze politiche durante i sette anni al Quirinale; a Conversano, poi, il Capo dello Stato ha l'occasione per ricordare al paese che la stessa mano fascista, celata dietro la sigla dei Nar (n.d.r, Nuclei Armati Rivoluzionari) armò i killer mafiosi che, a quasi quarant’anni dalla caduta del regime, uccisero il fratello Pier Santi, presidente democristiano della Regione Sicilia, il 6 gennaio del 1980.

È la pista di indagine del delitto fascista seguita per anni da Giovanni Falcone e su cui riferì nel 1990 ai parlamentari della Commissione Antimafia, durante un'audizione desecretata soltanto qualche mese fa.

Le commemorazioni organizzate in onore Di Vagno, per Sergio Mattarella rappresentano così l’occasione per trasmettere ai più giovani l’eredità antifascista della Repubblica, facendo i conti con il proprio tragico passato (personale e politico). 

Un delitto impunito 

La vicenda dei processi per l’omicidio dell’ex deputato socialista, rimanda alla delicata questione dell’epurazione dei fascisti dalle leve del potere statuale amministrativo, politico, giudiziario e di polizia.  Come ha scritto lo storico Miguel Gotor: «balza agli occhi un legame stretto con altri processi a crimini fascisti come quelli accaduti nel dopoguerra» - riferendosi alla strage di Piazza Fontana - «che ha a che fare con il fascismo mai superato, con la debolezza innata dello stato democratico».

Infatti, nel 1922, la Corte di Assise di Trani assolse i presunti colpevoli del delitto Di Vagno per insufficienza di prove e, sempre quell'anno, gli stessi autori subirono anche gli effetti dell’amnistia generale concessa dal Re Vittorio Emanuele dopo la Marcia su Roma. Nel 1944, poi, su pressione di alcuni uomini politici, in testa Sandro Pertini, il caso Di Vagno fu riaperto presso il tribunale di Potenza concludendosi il 31 Luglio del 1947 con la condanna di sei imputati, tra cui Luigi Lorusso, l’esecutore materiale.

Tuttavia, gli assassini del deputato di Conversano non fecero mai un giorno di galera, perché una sentenza della Corte di Cassazione del 22 Marzo 1948 recepì subito il provvedimento di amnistia disposto dall’allora Ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti. Un delitto, dunque, rimasto impunito a un secolo di distanza e che suscita ancora interrogativi. "Peppino" Di Vagno «muore due volte» senza ottenere giustizia. La prima, quando il regime si trincera dietro la difesa degli interessi nazionali, per giustificare gli esiti del processo, cioè l’amnistia concessa all’esecutore materiale del gesto. La seconda, invece, di ancor più difficile spiegazione – secondo gli storici -, quando la Repubblica appena nata dalla lotta anti-fascista lascia che la giustizia non faccia il suo corso e che gli esecutori di un gesto così efferato non paghino le conseguenze.

L’attualità del personaggio

Ricorda queste vicende di impunità fascista, attualizzando sia la morte e soprattutto la vita di Giuseppe Di Vagno, “Martire socialista”, una biografia dell’ex parlamentare uscita qualche giorno fa per la casa editrice Radici Future, scritta dal giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Fulvio Colucci. Colucci, riferendosi come Gotor alla mancata giustizia per i crimini fascisti e gettando un ponte temporale tra vicende processuali, dal delitto di Mola di Bari alla strage di Piazza Fontana, individua la presenza di «un vecchio ordito dentro il quale, mutate le circostanze, Giuseppe Di Vagno viene stritolato quasi 50 anni prima senza possibilità di giustizia». E sulla attualità del parlamentare (che fu avvocato e giornalista), della sua azione politica ispirata al socialismo, il giornalista pugliese ipotizza: «Oggi Di Vagno lo troveremmo a difendere i braccianti stranieri in un comizio a Borgo Mezzanone, lo ascolteremmo chiedere giustizia per gli sfruttati, quella che a lui e a tante altre vittime del fascismo è stata negata, anche nel dopoguerra, da sconci compromessi volti a impedire il compimento della democrazia italiana».

Anche se, come ha raccontato qualche anno fa l’ex parlamentare e giornalista, Gaetano Arfè, ricordandone l’infanzia «Di Vagno non è un predestinato al socialismo. Proveniente da agiata famiglia di media borghesia agraria, la sua opposizione all’ordine sociale esistente non è determinata dallo sfruttamento padronale, dalla miseria, dalla negazione all’accesso alla scuola, dalla solidarietà di classe, come nel caso del suo grande conterraneo, Giuseppe Di Vittorio, che imparò a leggere a lume di candela dopo le lunghe ore di fatica mal pagata».

C’è, infine, un fatto storico che costituisce un presagio della sua morte e che insieme colloca la figura del deputato socialista nella contemporaneità, a conferma proprio delle intuizioni dello scrittore Fulvio Colucci. È l’eccidio di Gioia del Colle avvenuto il 30 Giugno 1920, quando un gruppo di agrari, capeggiati da Natale Girardi, proprietario di una masseria a pochi chilometri dal paese, spara dall’abitazione di quest’ultimo contro alcuni contadini i quali, dopo aver raccolto il grano per due giorni, reclamavano il salario. Giuseppe Di Vagno sarà assassinato prima di poter difendere in tribunale quei braccianti, ma aveva partecipato alla fase preparatoria del processo, confermando il suo impegno di “avvocato del popolo” a tutela dei più umili; il giudizio si concluderà con una sentenza di assoluzione degli agrari che avevano ucciso sei contadini, perché avrebbero agito per «legittima difesa».

A Colucci l'episodio ricorda l'ennesima vicenda italiana di giustizia negata, ancora dagli «sconci compromessi» ostili all'affermazione della verità, della giustizia, della democrazia; a chi scrive le molte fucilate contro i braccianti, sparate negli ultimi anni a Castel Volturno, a Rosarno, nelle campagne della provincia di Foggia: i templi del nuovo fascismo agrario, dove i nuovi Peppino Di Vagno hanno nomi e cognomi originari del Corno d’Africa.

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