All’inizio della legislatura Giorgia Meloni aveva confermato, primo atto dopo la vittoria elettorale, i capigruppo di FdI alla Camera e al Senato, Francesco Lollobrigida e Luca Ciriani. Una scelta di metodo, bisognava avviare i lavori del parlamento e procedere con l’elezione dei nuovi presidenti della camere senza perdere troppo tempo. Ma anche di merito.

Dopo le elezioni di settembre il numero di deputati e senatori di FdI era aumentato in maniera consistente (da 61 a 181), il partito aveva allargato il proprio perimetro facendo entrare candidati provenienti da mondi e storie diverse, serviva una guida salda per evitare sorprese. A maggior ragione che su Meloni e i suoi ricadeva, inevitabilmente, la responsabilità di guidare la coalizione.

Lollobrigida e Ciriani, avvezzi alla pratica parlamentare e fedelissimi della leader, rappresentavano una garanzia. Così, nella prima riunione tra la premier (ancora in pectore) e gli eletti, il messaggio era stato chiaro: nessuna defezione, nessun cambio di casacca, ordine e disciplina.

Poi con la formazione del governo era arrivata «l’ora delle decisioni irrevocabili» e Meloni era stata costretta, suo malgrado, a spostare i suoi due dioscuri dalle aule parlamentari agli uffici dei ministeri dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (Lollobrigida) e dei Rapporti con il parlamento (Ciriani). Così a guidare i gruppi parlamentari sono arrivati Tommaso Foti e Lucio Malan.

La vicenda è un’ottima chiave di lettura per capire quanto accaduto giovedì nell’aula di Montecitorio, dove la maggioranza, pur forte dei suoi 237 deputati, non è stata in grado di trovare i voti necessari per approvare la risoluzione sul Def che autorizzava lo scostamento di Bilancio.

Certo, FdI ha mostrato più compattezza degli alleati (solo 5 assenti), ma Meloni ha sollevato ben altra questione: «Credo che si debba fare una valutazione ulteriore, e concentrare l’attenzione sui parlamentari in missione, su chi ha un doppio incarico».

L’equazione in fondo è semplice se i parlamentari diventano membri del governo è assai probabile che abbiano meno tempo per occuparsi di ciò che succede in aula. Giovedì si è andati comunque oltre questo non trascurabile problema, visto che i deputati in missione erano in numero esiguo rispetto all’ampia maggioranza.

L’impressione è che a prevalere sia stata più una certa approssimazione gestionale (con chiare responsabilità del ministro per i Rapporti con il parlamento Ciriani) che, unita al lungo ponte per il primo maggio, è risultata fatale. Ma la questione resta.

Perché se Meloni è stata costretta a promuovere i suoi due ex capigruppo al governo le ragioni non sono esclusivamente di merito. La premier ha voluto accanto a sé l’unica classe dirigente che ha: un nucleo ristretto di fedelissimi, quasi tutti parlamentari, che è comunque insufficiente per presidiare i “gangli del potere”. Non solo, ha preteso che anche gli alleati fornissero nomi specchiatamente “governativi” e all’altezza del loro ruolo (Antonio Tajani, Giancarlo Giorgetti, la bocciatura di Licia Ronzulli che tanto ha fatto arrabbiare Silvio Berlusconi), concentrando così alla Camera e al Senato la pattuglia degli insoddisfatti, degli ostili, ma anche dei “meno capaci”.

Forse non immaginava che, visti i numeri, la gestione parlamentare potesse diventare un problema. O forse sperava di risolvere i problemi con il ricorso sistematico al voto di fiducia, cosa che è accaduta finora. Oggi parla di organizzarsi meglio, di parlare di più. «Tutti devono sentirsi più coinvolti». La logica del cerchio magico non paga.

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