Dopo undici mesi di battaglia parlamentare, stavolta è davvero finita: la speranza di introdurre per legge un salario minimo esce definitamente di scena, con un finale di fuochi d’artificio e persino un mezzo tentativo di occupazione dei banchi del governo da parte delle opposizioni, cosa che gonfia la giugulare del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (FdI), che si spegne il microfono per non sacramentare in diretta.

La minoranza finisce tutta in piedi, sventolando cartelli – «non in nostro nome», «salario minimo negato», «sfruttamento legalizzato» – anche la segretaria Pd ne tiene in mano uno, dai banchi dei Cinque stelle parte il rituale «vergogna vergogna». La proposta di una paga oraria minima di 9 euro lordi per legge, per i contratti più bassi, è stata ostaggio della maggioranza di Montecitorio da un anno, un anno in cui il testo ha fatto due volte avanti e indietro fra commissione e aula.

La maggioranza prima ha provato a tirare la discussione per le lunghe, poi improvvisamente ha provato a cancellare la legge, poi la premier ha convocato i proponenti a palazzo Chigi alla vigilia di Ferragosto, e dopo ha chiesto un parere “tecnico” al Cnel di Renato Brunetta: che lo ha dato, e guarda caso era negativo, anche se a prezzo di una spaccatura interna. Infine ha trasformato la proposta delle opposizioni in una legge delega al governo. In cui il salario minimo non c’è più, neanche nominato. Praticamente uno sberleffo.

L’ultimo scontro

Per questo lunedì sera i leader delle opposizioni avevano ritirato le proprie firme dal testo, ormai diventato un’altra storia. Giuseppe Conte lo aveva stracciato in aula. Ieri mattina la scena si è ripetuta, con lo stesso livello di imbufalimento (e decibel). Ha attaccato Benedetto Della Vedova (+Europa): quello della maggioranza «è un atto di prepotenza politica». Nicola Fratoianni (Avs): «State dicendo agli italiani che chi lavora con salari troppo bassi deve continuare a farlo, e che della condizione materiale dei cittadini ai voi non frega niente».

Ha continuato Matteo Richetti (Azione): «Dalle polemiche sulla cifra individuata alla richiesta di parere del Cnel, solo tempo perso, nessuna proposta emendativa ma semplicemente un rifiuto sempre più imbarazzante». Per M5s ha parlato Valentina Barzotti: «Questa delega della maggioranza schiaccia senza pudore e con arroganza l’opposizione. Per non darci il merito di aver interpretato un sentire comune».

Elly Schlein ha preso la parola come aveva fatto la sera prima: «Oggi è un giorno triste per la Repubblica, accartocciate con una mano la proposta delle opposizioni sul salario minimo e, con l’altra, date un manrovescio a 3,5 milioni di lavoratrici e lavoratori, che sono poveri anche se lavorano».

La maggioranza ha mandato in campo le seconde file: quella delle opposizioni è stata «la via crucis dell’incoerenza» (Chiara Tenerini, Forza Italia), «torneremo in quest’aula a parlare di lavoro, non parleremo più di salario minimo, ma di nuove sfide» (Virginio Caparvi, Lega, va detto che il partito di Salvini è però più cauto nei toni), finché la questione non è stata sigillata dal presidente della commissione Lavoro Walter Rizzetto (Fdi).

Che l’ha buttata in caciara: «Il vero capo dell’opposizione si chiama Landini (segretario Cgil, ndr), che è lo stesso che qualche anno fa gridava allo scandalo rispetto all’istituzione di un salario minimo, ma che oggi abbraccia questa proposta».

E ha chiuso la partita in scivolata: «Siete i lama della politica italiana, per oltre dodici anni avete sputato in faccia ai lavoratori votando i licenziamenti collettivi». Ce l’aveva con il Jobs act del Pd (di Matteo Renzi, peraltro Iv vota contro la delega ma non si è mai unita alla richiesta di salario minimo).

M5s, troppe assenze

Il salario minimo è legge in 22 paesi su 27 dell’Unione europea, ma non lo sarà in Italia: la Ue non ci obbliga a introdurlo (perché in Italia la maggior parte dei lavori sono coperti dalla contrattazione collettiva), e quindi per una volta Fdi e Lega si vantano di seguire le indicazioni europee. Il voto finisce con 153 sì e 118 no. Evidentemente la maggioranza non era preoccupata: le mancano all’appello 72 voti. E va detto che forse non lo era perché anche le opposizioni, nonostante le proteste, presentavano qualche buco di troppo.

Dai banchi grillini mancavano 17 deputati, dieci erano in missione e sette assenti; da quelli del Pd ne mancavano dieci, di cui sei in missione e quattro assenti (per M5s la percentuale dei votanti è il 67,31, per i dem l’85,5) e via scendendo nei gruppi minori: alla fine non sono arrivati una quarantina di no. Che difficilmente avrebbero ribaltato il risultato, ma avrebbero sottolineato la serietà dell’impegno, al di là delle urla in aula. E forse di più.

Ora il testo passa al Senato. Entro sei mesi il governo dovrebbe trovare il “suo” modo per garantire ai lavoratori «una retribuzione proporzionata e sufficiente» come dice la Costituzione all’articolo 36. Le opposizioni portano a casa un risultato magro: certo, hanno costretto la maggioranza a dire un no che è una figuraccia anche davanti a una parte del proprio elettorato.

E ora giurano di andare avanti «nel paese», rilanciando la raccolta di firme dell’estate (peraltro mai presentata pubblicamente, il numero finale resta vago, nonostante i ripetuti “firma-day”, forse per paura delle contestazioni a cui si presta la piattaforma online, fornita dai Cinque stelle). Sono restate unite per un anno su questo tema, fin qui un unicum dall’inizio della legislatura (tranne Iv). Il fatto è che da questa unità non ne è nata una collaborazione più ampia, che era quello su cui aveva scommesso Schlein.

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