Venerdì mattina, nella sala della Protomoteca del Campidoglio, c’era il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e attorno a lui un grande svolazzare di tonache e di berrette rosse vaticane, il segretario di Stato, Pietro Parolin, il decano Giovanni Battista Re, Giovanni Lajolo e Edoardo Menichelli.

Tutti convenuti per commemorare nel centenario della nascita il cardinale Achille Silvestrini, scomparso nel 2019, protagonista del Novecento cattolico, grande tessitore della diplomazia della Santa sede con sette papi. In prima fila, accanto al capo dello stato e ai cardinali, c’era Giuseppe Conte, ex frequentatore di Villa Nazareth, l’istituto che fu prediletto da Silvestrini, perfettamente a suo agio tra porporati e eccellenze, quasi più di Gianni Letta, seduto qualche fila dietro: l’eminenza azzurrina scalzata dall’eminenza ramata.

La manifestazione

Venerdì pomeriggio, qualche ora dopo, manifestazione per la pace in Medio Oriente al quartiere Esquilino, tra gli striscioni riecco Conte, questa volta senza cravatta, a chiedere «un percorso di dialogo che abbia come esito due popoli e due stati».

Un obiettivo per cui il cardinale Silvestrini in vita si è battuto a lungo, certo. Ma soprattutto c’è ancora una volta la straordinaria capacità di Conte di assimilarsi alle situazioni. Come lo definì L’Espresso già nel giugno 2018, alla sua comparsa in scena, in un’inchiesta di Emiliano Fittipaldi, oggi direttore di questo giornale: il Conte Zelig.

Il Conte uno e il Conte due dei governi da lui presieduti si sono moltiplicati. C’è il Conte di curia e il Conte di piazza, il Conte prelatizio e il Conte barricadero, il Conte all’acqua di colonia e il Conte movimentista, ma insieme fanno un leader che guida un partito personale del sedici per cento.

Si chiama ancora Movimento 5 stelle ma è, a tutti gli effetti, la lista Conte. Durante la sua ancora breve attività politica, l’avvocato ha eliminato prima Matteo Salvini, scaricato dal governo nel 2019, poi Nicola Zingaretti, che lo aveva benedetto come «fortissimo punto di riferimento della sinistra europea», con il suo mentore Goffredo Bettini (sono stati presi alla lettera: Conte infatti ha un partito, loro no), e quindi Beppe Grillo, una vita nel segno della Cina, passato dalle barzellette sui socialisti in visita a Pechino negli anni Ottanta alle udienze dell’ambasciatore di Xi Jinping a Roma, e infine Luigi Di Maio. La scissione dell’ex ministro degli Esteri nell’estate 2022 doveva nei piani sfilare il partito a Conte, invece è successo l’opposto. Di Maio veleggia come inviato Ue nel Golfo ridotto al silenzio, l’ex premier è uno dei protagonisti della politica italiana. Guai a sottovalutarlo, dunque. Di certo non lo sottovaluta Giorgia Meloni. Anzi, ha tutto l’interesse a sopravalutarlo.

Durante l’ultimo dibattito alla Camera, mercoledì scorso, ha ripetutamente attaccato Conte, ma il fumo delle battute non deve impressionare. Uno dei privilegi che tocca al capo della maggioranza è la scelta dell’avversario preferito, il più funzionale al proprio progetto: restare al potere il più a lungo possibile. Un obiettivo ancora più urgente ora che la destra di governo si rivela a pezzi e va in ordine sparso sulla legge di Bilancio.

Il capo del governo Meloni sceglie Conte come capo dell’opposizione. È uno scontro tra estremi, tra opposti populismi, che punta a ridisegnare il sistema politico. Un sistema in cui l’area di governo sia guidata dalla destra di Meloni e quella dell’opposizione da Conte, modello Mélenchon in Francia, che è senza prospettive di vittoria ma è egemone sul vecchio partito socialista.

Per il Pd, attualmente primo partito dell’opposizione, si tratta di una minaccia letale. Perché negli ultimi giorni Conte è balzato su tutti i palcoscenici: l’aula della Camera, il tempio dell’establishment istituzionale e vaticano, la piazza pacifista. Conte è ovunque, comunque e soprattutto qualunque. Mentre sul versante del Pd si registra una preoccupante assenza. Non stupisce che Meloni lo elegga a nemico del cuore: è un’assicurazione sulla vita. In queste condizioni la coalizione alternativa non nascerà mai. A Conte conviene tenersi stretto il suo ruolo attuale, piuttosto che fare da comprimario in un ipotetico centro-sinistra.

Anche uno scenario polacco, un cartello su modello di quello capeggiato da Donald Tusk, vittorioso alle ultime elezioni, presuppone che Meloni faccia l'errore capitale: la proposta di riforma della Costituzione che unirebbe le opposizioni contro di lei, come accadde a Renzi. Ma senza questo impulso suicida, la segretaria del Pd Elly Schlein deve interrogarsi su come evitare di finire nell'elenco delle leadership cancellate con un colpo di pochette da uno che riesce a scalzare perfino Gianni Letta dalla prima fila dei venerabili.

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