Dovevano essere le comunicazioni sul prossimo Consiglio europeo, ma con le repliche la premier Giorgia Meloni le ha tramutate in un attacco al suo predecessore Mario Draghi, spazzando via così mesi in cui i rapporti tra i due sembravano essersi assestati su una prudente collaborazione istituzionale.

Rispondendo al Pd, che le contestava l’ossimoro del sostegno all’Ungheria e l’amicizia con l’Ungheria di Viktor Orban, la presidente del Consiglio ha detto di «credere che l’Europa non sia a 3 ma abbia 27 stati e che quindi si deve dialogare con tutti per un’Italia forte». Poi, citando la foto di Draghi in treno con Emmanuel Macron e Olaf Scholz diretti verso Kiev, ha detto che «per alcuni la politica estera è stata semplicemente farsi fotografie con Germania e Francia, anche senza portare a casa niente. Io penso di fare bene il mio mestiere parlando con tutti, anche con l'Ungheria».

Un affondo inatteso e anche estemporaneo, in cui rieccheggiano le indiscrezioni degli ultimi giorni di una possibile ipotesi Draghi come futuro presidente della Commissione Ue. Un’intemperanza, quella della premier che poco dopo è costretta a intervenire per precisare: «Il mio non è stato un attacco a Draghi ma al Pd che come al solito pensa che tutto il lavoro che il presidente del Consiglio Draghi ha fatto si riassuma nella fotografia con Francia e Germania. Non è la foto con Macron e Scholz che determina il lavoro di Draghi». 

Resta il riflesso condizionato ormai canonico di cercare nemici fuori dal governo, che potrebbe nascondere anche il grande nervosismo del governo per lo stato dei negoziati in Ue. 

Infatti, quello del 14 e 15 dicembre sarà un Consiglio europeo «non semplice», come lo ha eufemisticamente definito la premier, che nel suo intervento ha esordito con lo scoglio maggiore: la riforma del patto di Stabilità, su cui il governo è impegnato da mesi in un negoziato complicato che, per Meloni, ha al centro «il bilanciamento tra il sostegno alla crescita e il bilancio degli stati». La premier ha spiegato però che l’Italia si presenta al tavolo come «nazione virtuosa» e con una «politica di bilancio seria», tributando un plauso diretto al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Il nostro paese, infatti, avrebbe «un avanzo primario in incremento e il sistema pensionistico è il più equilibrato d’Europa» anche grazie alla «razionalizzazione della spesa e alle privatizzazioni» promosse dal governo.

Il patto di stabilità

Per ora, Meloni ha voluto rivendicare quello che considera un primo successo nella trattativa: l’accettazione del punto proposto dall’Italia per cui il rapporto deficit Pil debba tenere conto, nel triennio 2025-27, degli interessi sul debito per la transizione verde e digitale e per la difesa. «Lavoreremo perchè questo diventi strutturale», ha concluso, sottolineando anche come la rinegoziazione del Pnrr sia andata a buon fine e che «ha consentito di liberare 21 miliardi di euro per riforme strutturali e dedicate alla crescita». Insomma, «la trattativa è difficilissima» ma la partita «è ancora aperta e l’accordo finale posticipato», ha spiegato. Il bilancio tracciato dalla premier, dunque, ha tinte rosee. Con una postilla però: le carte sono in regola, ma «al netto del Superbonus, che pesa sui conti pubblici». Una precisazione tutt’altro che marginale e che rischia invece di far esplodere i conti e anche gli equilibri politici di maggioranza.

In replica, poi, ha concluso che «la trattativa è serrata» ma «non darò il mio assenso ad un patto di stabilità che nessun governo, non solo il nostro, può rispettare» e ha attaccato il precedente governo: «Preferisco essere accusata di isolamento che di aver svenduto l'Italia come è capitato ad altri». E’ ritornata anche sulla mancata ratifica del Mes, ribadendo che aspetterà la volontà del parlamento ma anche attaccando chi ha governato prima di lei, sostenendo che il mandato alla ratifica sia stato dato dal governo Conte «col favore delle tenebre», ma che poi il parlamento non abbia proceduto.

Politica estera

Al centro del Consiglio europeo ci saranno anche i negoziati per i nuovi accessi di Ucraina, Moldova e Bosnia e per la richiesta di adesione per la Georgia. I Balcani in particolare saranno oggetto di un vertice ad hoc, ma Meloni ha orientato l’Italia a favore dell’ingresso degli stati dell’est e in particolare di Ucraina e Moldova, anche alla luce del conflitto con la Russia. La premier ha ribadito di essere al fianco di Zelenski, con l’obiettivo di «un negoziato serio e una pace giusta», mentre sul fronte israeliano ha ribadito «la ferma condanna di Hamas, la difesa del diritto a Israele a esistere». La direzione, però, è quella di «impedire che si indebolisca ulteriormente l’autorità palestinese, perchè serve un nuovo impulso politico per la soluzione dei due stati».

La linea complessiva del governo si articola in tre punti: sostegno all’Ucraina, gestione delle politiche migratorie e potenziamento dell’industria europea, «ma senza trattare gli argomenti separatamente» perchè uno dipende dall’altro. Il nodo dolente, tuttavia, è rimasto quello della politica migratoria: Meloni ha voluto rilanciare le iniziative del suo governo, dal piano Mattei per l’Africa (che è slittato a gennaio) al protocollo con l’Albania per la costruzione di un cpr sulle sue coste, che potranno ospitare però solo migranti salvati in acque extraeuropee. Proprio su questo ha attaccato le opposizioni: «Dispiace che le voci stonate arrivino proprio dall’Italia, arrivando a chiedere l’espulsione di Edi Rama dal Partito socialista europeo, evidentemente aiutare l’Italia è una colpa».

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