Alla Camera è stato il giorno delle scuse per Fratelli d’Italia. Agli «italiani», ha detto il capogruppo Tommaso Foti, ma anche – e forse soprattutto – alla «presidente del Consiglio», che tornerà dal suo viaggio diplomatico a Londra con un carico di rabbia da sfogare. Ieri in un tour de force con navetta lampo tra Camera e Senato il testo del Def è stato approvato, ma la figuraccia della maggioranza non è così facile da dimenticare e trovare scuse davanti alla premier per i capigruppo non sarà facile.

In aula a impegnarsi di più è stato il presidente dei deputati della Lega, Maurizio Molinari, che si è scagliato contro il taglio dei parlamentari (votato anche dai leghisti nella scorsa legislatura) che ha lasciato però invariati i numeri dei quorum funzionali. Foti, nel dargli ragione, ha fatto insorgere le opposizioni che «dovrebbero guardare alle loro assenze», visto che nel giorno del voto anche sul fronte opposto si contavano banchi vuoti.

L’approvazione del Def però è onere della maggioranza e da questo non si sfugge, come ben sa anche la premier, che tornerà dal Regno Unito con una lunga lista di problemi da risolvere e la consapevolezza di camminare su un terreno franoso, anche dove sulla carta dovrebbe sentirsi più sicura come sui numeri in parlamento. «Un peccato di leggerezza, nessuna questione politica», è il commento prevalente tra i parlamentari, ritornati in fretta e furia a Roma per rimediare al pasticcio di quelle 45 assenze tra giustificate e non, approvando in fretta e furia il Def.

Minimizzare però difficilmente aiuterà a migliorare l’umore di Meloni, che ha davanti mesi complicatissimi e ha dovuto ostentare tranquillità sulla solidità economica italiana proprio mentre i suoi inciampavano in parlamento.

La pressione europea

Il fronte più delicato riguarda il Pnrr e la spesa dei fondi europei, per cui è in bilico la nuova tranche. Ormai è il non detto che tutti sanno: molti dei progetti previsti dal piano non sono realizzabili nei tempi stabiliti, sia per mancanza di tempo che di risorse di personale per metterli a terra nei comuni, soprattutto i più piccoli.

Il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, è al lavoro per stilare la lista definitiva di quelli che salteranno, perché ad oggi i fondi europei finanzieranno solo i progetti ultimati a giugno 2026, mentre quelli rimasti a metà graveranno totalmente sulle casse nazionali. Tuttavia, Meloni ha dichiarato che «spenderemo tutti i soldi» e, per farlo, la strategia su cui il governo si sta orientando è duplice.

Da un lato riallocare le risorse sui progetti più realizzabili e legati a trasporti ed energia, gestiti dalle partecipate di Stato. Per questo nei giorni scorsi si è tenuto un incontro tra i vertici di Ferrovie dello stato, Fitto e il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, per valutare la fattibilità dell’enorme mole di progetti in cantiere, visto che il Pnrr assegna al colosso 23,8 miliardi di euro. Dall’altro negoziare «flessibilità» con la Commissione europea, perché accetti sia le modifiche al piano che eventuali dilazioni.

Per ottenere qualcosa dall’Europa, però, Meloni si trova nella scomoda posizione di dover concedere qualcosa. I piani sono formalmente separati, ma non è sfuggita la fortissima pressione europea e anche delle cancellerie degli altri stati membri perché l’Italia ratifichi il Mes.

Il cosiddetto fondo salva Stati però è la bestia nera del centrodestra, che proprio la premier ha giurato di non sottoscrivere mai. Tuttavia, è l’obiezione in Europa, la riforma del Meccanismo europeo di stabilità è fondamentale per garantire la stabilità finanziaria della zona euro e deve essere approvato da tutti. Segno che l’aria sta cambiando e si media per un avvicinamento, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha detto che «approfondiremo».

Meloni ha ribadito di non aver cambiato idea, ma di «voler aprire una discussione». «Basta fare i Tafazzi, l’economia italiana va bene, i mercati non sono preoccupati», ha detto. Il problema della ratifica è tutto interno e avrà un costo politico di cui la premier è consapevole: il suo elettorato ha sfumature euroscettiche e l’ha appoggiata proprio per la sua intransigenza.

Tenerla dall’opposizione era semplice, farlo guardando negli occhi tutti gli altri capi di stato al Consiglio europeo, soprattutto quando si hanno richieste da avanzare.

Non solo. L’altro fronte aperto per Meloni riguarda il suo futuro europeo e quanto intenderà mettersi in rotta di collisione con la parte di Ppe rappresentata dalla presidente Ursula von der Leyen. Intorno alla premier italiana, infatti, ruota il progetto dei conservatori europei in vista delle prossime elezioni del 2024 e l’ipotesi dell’asse con Manfred Weber.

Il grande sconfitto da von der Leyen per la guida della Commissione e presidente dei Popolari, infatti, sta intensificando il dialogo con le destre di tutti i paesi europei. «Anche il suo posizionamento europeo avrà riverberi sul trattamento dell’Italia», è la riflessione di una fonte di FdI che già pensa alla futura tornata elettorale. Tutte le incognite di Meloni, sia da premier che da leader di FdI, rimandano a Bruxelles.

 

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