La lunga notte della trattativa fra governo ed enti locali sul nuovo Dpcm, le «Misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale», finisce in un’alba di polemiche. Nelle ore della seconda ondata di contagi, l’appello alla collaborazione del presidente premier Giuseppe Conte non convince. I sindaci, innazitutto. La norma che scaricava su loro la responsabilità del famigerato «coprifuoco», parola che Palazzo Chigi ha bandito, l’avevano vista, scritta nero su bianco. Era il comma 2 bis dell’articolo uno: «I sindaci dispongono la chiusura al pubblico, dopo le ore 21, di vie o piazze nei centri urbani, dove si possono creare situazioni di assembramento». Nella notte si sono scatenati contro. Filtra una telefonata molto ruvida del presidente dei comuni Antonio De Caro, che considera una «scorrettezza istituzionale» già solo aver inserito quella misura impopolare sulle spalle dei primi cittadini. Morale: nell’ultima versione del Dpcm quel passaggio non c’è più. «Sbianchettato», ironizza la forzista Mara Carfagna. Al suo posto c’è un nuovo comma : «Delle strade o piazze nei centri urbani, dove si possono creare situazioni di assembramento, può essere disposta la chiusura al pubblico, dopo le ore 21». La chiusura può essere essere disposta: ma da chi? I sindaci, che nella precedente ondata di contagi avevano rivendicato autonomia, stavolta non ci stanno a fare la parte dei carcerieri dei concittadini. Il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia prova a smussare: «Non c’è alcuno scaricabarile».

Ma il malumore resta. Perché comunque l’intenzione del governo resta la stessa, e viene riassunta così: «I presidenti di Regione sono le massime autorità sanitarie delle Regioni e possono adottare restrizioni a carattere regionale. I sindaci sono le massime autorità sanitarie cittadine e possono farlo sui loro territori in caso di necessità». Ma secondo De Caro ora «per come è scritto il decreto non si capisce chi deve fare che cosa. Il sindaco non può chiudere le aree». Tocca ai prefetti, è la sua tesi. Proteste arrivano dalle grandi città, dove si fanno i conti con la movida: «Ancora una volta hanno lasciato i sindaci con il cerino in mano», attacca da Napoli Luigi De Magistris. E dalle regioni: «E’ una norma che grida vendetta», dice il presidente del Veneto Luca Zaia, «avendo le forze di polizia una regia nazionale, non si capisce perché il sindaco debba avere la responsabilità dell’evacuazione delle piazze». Il presidente del Lazio Nicola Zingaretti si schiera con i colleghi: «Le preoccupazioni erano fondate. Per decidere la chiusura dei quartieri serve il coinvolgimento dei prefetti».

Conte scivola sul Mes

Ma la crepa più forte si apre nella maggioranza sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, la linea di investimenti dedicata alla sanità su cui Pd e Cinque stelle sono divisi da sempre. In conferenza stampa Conte è poco diplomatico rispetto alle sue consuete circonlocuzioni: «Il Mes non è una panacea», dice, «se avremo bisogno un fabbisogno di casa, ha senso, altrimenti no». E conclude prendendo a prestito un’argomentazione dal governatore di Bankitalia, ma rovesciandone il senso: «C’è un rischio, lo ‘stigma’, non quantificabile: Sure l’hanno preso una decina di Paesi, il Mes nessuno». Un’affermazione che scatena gli applausi della Lega e di Fratelli d’Italia. E che invece i dem prendono male. Da tempo il segretario Zingaretti chiede inutilemente che si discuta di Mes. All’indomani delle regionali aveva rilanciato il tema, ma era stato frenato dal ministro dell’economia Roberto Gualtieri sulla base del dubbio ancora non fugato se i fondi siano «aggiuntivi o sostitutivi». Ma la verità il problema è sempre e solo stato un altro: sul Mes i Cinque stelle rischiano la spaccatura. Ma la frase di Conte svela il suo pensiero: alla sanità non manca la liquidità, quindi il Mes non verrà chiesto. E ora il Pd rischia di perdere la faccia ingoiando l’ennesimo rospo.

Zingaretti, di solito cautissimo, stavolta reagisce: «Un tema così importante non va affrontato con una battuta in conferenza stampa», «In un momento così delicato, con il virus che angoscia milioni di italiani, bisognerebbe evitare ogni occasione per fare polemiche politiche. E scommettere sulla solidarietà delle forze di maggioranza e sul sostegno leale che stanno dando al governo». Come dire: fino a qui siamo stati responsabili, ma ora che gli ospedali tornano pieni, il Pd non si intesterà i ritardi nella riorganizzazione delle sanità regionali dovute – almeno in parte – alla rinuncia a quei soldi. Proprio nella regione Lazio è praticamente pronto un piano per il rafforzamento della rete territoriale ospedaliera. Ma è rimasto in un cassetto, proprio per senso di responsabilità. Con il segretario Pd si schiera Paolo Gentiloni, eurocommissario all’economia: «Io ho fatto la mia parte», dice riferendosi alla trattativa sul cambio delle condizionalità alla nuova linea di credito: ora «spetta ai governi decidere», ma «è chiaro che c’è un vantaggio per i paesi che hanno un debito elevato, di alcune centinaia di milioni l'anno». Dal Pd parte l’artiglieria. Al premier viene chiesto di tenere conto «delle posizioni della maggioranza e non solo quella di un partito», cioè M5s. E il presidente dei deputati Graziano Delrio formalizza la richiesta a nome del gruppo: «Stiamo aspettando il piano del governo per rafforzare la sanità pubblica», dice, riferendosi al piano del ministro della salute Roberto Speranza, le cui linee risultano definite da giorni. «Conte venga in parlamento e discutiamo se le risorse del Mes siano le più convenienti, come noi del Pd riteniamo, o se qualcuno ha idee migliori». Per Boccia però ancora non si può discuterne: mancano i piani regionali. E il confronto è di nuovo rimandato. In serata però Conte si corregge: sul Mes «ho solo chiarito le ragioni per cui non è una panacea». E annuncia che il confronto di maggioranza chiesto a più riprese da Pd e Italia viva si farà, «dopo gli stati generali dei Cinque stelle».

@Riproduzione riservata

© Riproduzione riservata