«Non si può fare la solidarietà con i confini degli altri» ha detto Giorgia Meloni. Una versione rivista e corretta di un celebre (e più volgare) detto che fa cogliere quanto la partita con Berlino, che oltre che sui migranti si gioca sulle regole del patto di stabilità da cambiare e sull’approvazione del Mes, sia a un punto cruciale. La temperatura sale di volta in volta quando uno dei temi diventa d’attualità, ma nel duello interno alla maggioranza con Matteo Salvini, la premier ha deciso di inasprire i toni sui migranti inviando alla cancelleria tedesca una lettera formale per esprimere «stupore» al «caro Olaf» Scholz.

Da allora, ci sono stati contatti con il governo federale e il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha incontrato la sua omologa Annalena Baerbock, dovendosi però limitare a prendere atto del dissenso. Ancora ieri, a Malta, Meloni ha scelto di rilanciare: «Se loro vogliono tornare indietro sulle ong allora noi proponiamo un altro emendamento in forza del quale il paese responsabile dell’accoglienza dei migranti che vengono trasportati su una nave di una ong, deve essere quello della bandiera della nave dell’ong». La premier è comunque lontana dal vicesegretario leghista Andrea Crippa che è già arrivato a paragonare le barche dei migranti ai carri armati nazisti.

Una situazione che va oltre la rivalità calcistica e le barzellette, ma che è il distillato di tensioni che riaffiorano periodicamente da vent’anni a questa parte. Alla base anche una serie di incomprensioni culturali e umane, come quelle che separavano Angela Merkel da Silvio Berlusconi (forse anche i commenti poco lusinghieri all’aspetto fisico in questo contesto non hanno migliorato la situazione).

Per la maggioranza che oggi regge il governo di Giorgia Meloni, il punto di non ritorno è il 2011, quando a una domanda su Berlusconi la cancelliera tedesca e l’allora presidente francese, Nicolas Sarkozy, si erano scambiati un sorriso d’intesa. La prova plastica di un legame da cui Roma era esclusa.

Gli anni successivi non hanno migliorato le cose. Se nel 2015 in Grecia Merkel veniva rappresentata con il baffetto da Adolf Hitler mentre nel continente imperversava la crisi dell’euro, Matteo Salvini e Meloni già diffidavano dei tedeschi e della scelta della cancelliera di accogliere i migranti siriani in arrivo in Germania. Il tutto insieme all’estrema rigidità sui conti europei che in quegli anni era la soluzione di Berlino a qualsiasi problema, una combinazione esplosiva agli occhi dei sovranisti di casa nostra.

Dopo qualche anno di rapporti più sereni con i governi guidati dal Pd, le incomprensioni sono tornate ad aumentare con il governo populista gialloverde. Nel 2018 i leghisti hanno potuto finalmente dare sfogo alle loro passioni, con Alberto Bagnai che parlava di Merkel come «un’apprendista stregona». Coerente anche Meloni, che spiegava: «L’Italia è ancora una nazione sovrana, Juncker e la Merkel se ne facciano una ragione».

L’economia

E se nel 2011 lo spread era decollato, costringendo Berlusconi a lasciare palazzo Chigi, nel 2018 l’economia tornava a essere la miccia che metteva a rischio i rapporti con Berlino. Il differenziale tra i tassi d’interesse dei titoli di stato italiani e quelli tedeschi era un osservato speciale nei giorni in cui sembrava che un difensore di tesi controverse e antieuropeiste come Paolo Savona potesse diventare ministro dell’Economia. E mentre con Donald Trump l’intesa di Giuseppe – “Giuseppi” – Conte era decollata fin da subito, il rapporto dell’avvocato con Merkel si era arenato subito sulla questione migranti. Solo più avanti i due sarebbero arrivati a condividere una birra a margine di una riunione a Bruxelles. L’immagine che sopravvive dal 2018 è il Consiglio europeo che partorisce, dopo una lunga maratona, il sistema di ripartizione volontario. Merkel, però, lo aveva detto già allora: «Abbiamo ancora molto lavoro da svolgere». In Italia, l’accordo è stato venduto – come potrebbe essere diversamente – come grande successo. Pochi mesi dopo, proprio la capitana tedesca che salvava migranti al timone della Sea Watch, Carola Rackete, era diventata uno degli avversari prediletti di Salvini. Oggi Rackete è candidata con la Linke alle prossime europee.

Il 2019 è stato anche l’anno del Mes, che ha investito il secondo governo Conte e spaccato il Movimento 5 stelle. Alla fine la ratifica della modifica del trattato ha portato a un passo dallo strappo, mentre tornava in voga “la troika” dei creditori, entità oscura che veniva evocata durante la crisi del 2011. Il dossier è finito accantonato, diventando il simbolo delle imposizioni economiche dell’Unione europea volute dai falchi tedeschi. Paradossale solo che, nel frattempo, il senso dei governi tedeschi per l’austerità è diminuito, a differenza di quel che veniva raccontato in Italia. A oggi, il Meccanismo europeo salva stati non è stato ancora approvato: l’Italia è l’ultimo paese a doverlo fare.

Resta poi, ultima ma non ultima, la trattativa sul patto di stabilità. Per ora siamo in alto mare. Il debito italiano è da sempre motivo di preoccupazione per il resto d’Europa: la prova sta nello spread, prontissimo a tornare oltre i livelli di guardia dopo la presentazione da parte del governo di un futuro a tinte fosche con un deficit al 5,3 per cento quest’anno e al 4,3 il prossimo. Ironia della sorte, nel frattempo a Berlino è tornato a insediarsi un falco al ministero dell’Economia.

Christian Lindner è probabilmente quanto di più vicino si possa immaginare a Wolfgang Schäuble, uomo di fiducia di Merkel durante la crisi e simbolo dell’austerità. In tutto ciò, per novembre è in programma la firma del patto d’azione con Berlino, un accordo diplomatico sulla falsariga del trattato del Quirinale: il testo, che prevede una collaborazione stretta tra i due governi e i parlamenti, in questo contesto, rischia di rimanere però lettera morta. Un quadro europeo che non agevola Roma, sicuramente. Che però non fa nulla per aiutarsi.

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