Giureranno a mezzogiorno i ministri e le (troppo poche) ministre del governo di Mario Draghi annunciato ieri sera dopo una giornata di partiti in tilt da mancanza di informazioni, voci che si rincorrono e incertezze quasi fino all’ultimo. Quindici gli esponenti politici, otto i tecnici, otto donne e quindici uomini. È anche un mix di eccellenze, vecchie conoscenze e ripescaggi. Dopo che il presidente del Consiglio annuncia la squadra dal salone delle feste del Quirinale, il primo a esultare è Matteo Salvini.

La Lega si è vista premiare con i dicasteri sperati, quelli delle leve di spesa: allo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, l’uomo che prima della pandemia sosteneva che dai medici di famiglia «nessuno va più»; alle Disabilità Erika Stefani, già madrina dell’autonomia differenziata delle regioni; al Turismo Massimo Garavaglia. Il leader leghista scatta subito con entusiasmo, deve dare anche l’idea di non masticare amaro per non essere stato inserito nella squadra. «Imprese, turismo e disabili. La Lega da subito al lavoro per rilanciare il cuore dell’Italia». Anche Maria Elena Boschi applaude a nome di Italia viva: «Un’ottima squadra», ma deve aggiungere «un grazie di cuore a Teresa Bellanova». E si capisce perché: solo la ministra Elena Bonetti è tornata al suo posto, alle Pari opportunità, l’ex ministra delle Politiche agricole resta senatrice semplice.

Oltre al premio per gli europeisti dell’ultima ora, ci sono i ministri di marca “draghiana” a segnare l’esecutivo: alla Transizione ecologica Roberto Cingolani; all’Innovazione tecnologica e transizione digitale Vittorio Colao, capo di una task force e autore di un “piano di ripartenza” del paese chiesto e poi ignorato da Giuseppe Conte; alla Giustizia l’ex presidente della Consulta Marta Cartabia era ampiamente annunciata e invocata; all’Istruzione Patrizio Bianchi, già capo della task force di viale Trastevere e non proprio un fan dell’uscente ministra Lucia Azzolina; ai Trasporti Enrico Giovannini, l’economista dello sviluppo sostenibile che dovrà decidere su grandi opere e Autostrade; all’Università Cristina Messa. Draghi affida il cruciale ministero dell’Economia a Daniele Franco, suo uomo di fiducia, direttore generale della Banca d’Italia e già ragioniere generale al Tesoro.

Le correnti

Il Pd si aggiudica quello a cui ambiva sulla base del vecchio manuale Cencelli, l’algoritmo della spartizione in quote della prima Repubblica. Restano infatti alla Difesa Lorenzo Guerini e alla Cultura Dario Franceschini; torna al governo, stavolta al ministero del Lavoro, Andrea Orlando. Tre uomini “forti” del Nazareno, tre capicorrente, la spartizione correntizia è persino esibita, certo una garanzia di stabilità politica. Ma dai dem non c’è nessuna donna. Nicola Zingaretti, il segretario, scrive: «In questi mesi, nel lavoro di ricostruzione del partito, abbiamo scommesso molto sulla valorizzazione della forza e della risorsa delle donne», ma donne non ne sono state “spinte” dal Pd.

Resta la “tecnica” Luciana Lamorgese al governo, entra da sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, capo di gabinetto del ministero dell’Economia di Pier Carlo Padoan e Giovanni Tria contro il quale i Cinque stelle avevano fatto fuoco e fiamme. Ma era un’altra era politica. Alla Salute resta Roberto Speranza: di certo convince Art.1 a votare la fiducia, forse anche Sinistra italiana a astenersi. Anche Forza Italia fa il pieno: al ministero per il Sud Mara Carfagna; alla Pubblica amministrazione torna Renato Brunetta dai tempi del primo Berlusconi; alle Autonomie Maria Stella Gelmini, già ministra dei tagli alla pubblica istruzione.

La pattuglia Cinque stelle è tutta di riconferme: agli Esteri Luigi Di Maio; ai Rapporti con il parlamento Federico D’Incà; dallo Sviluppo all’Agricoltura Stefano Patuanelli a alle Politiche giovanili Fabiana Dadone. Per tutto il giorno i pentastellati hanno temuto questo momento che rischia di sancire una rottura interna più forte del previsto. Ma non saranno i numeri il problema di questo governo.

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