È un mezzogiorno di sole nella capitale quando le sardine Mattia Santori, Jasmine Cristallo e Lorenzo Donnoli risalgono la corrente verso la sede del Pd, dove vanno a chiedere al partito senza leader e in balìa delle onde del destino «una nuova fase costituente: aperta, democratica, innovativa. Per tutti gli apolidi della politica». Vogliono che si rifaccia “Piazza Grande”, il movimento che ha portato alla segreteria Nicola Zingaretti. Ma che lo stesso Zingaretti ha rottamato appena eletto, per governare con le correnti contro cui ora lancia accuse.

Le sardine chiedono a Zingaretti di ripartire, o di seguirle «fuori dal Pd». Arrivano armate di sacchi a pelo. Christian Caricola, attivista bolognese, ha persino un borsone con una canadese, «nel caso ci accamperemo nel terrazzo». È l’annuncio di un’occupazione, per quanto pacifica e amichevole, del Nazareno. Si fermano cittadini, si sfogano contro il Pd che fa fuori il suo ennesimo segretario (stavolta è un’autodefenestrazione, ma è un dettaglio). La signora Maria Cupelli: «Noi del popolo del Pd non abbiamo più l’anello al naso. La stampa ci deride, siamo stanchi». Il signor Gustavo Gagliardi, circolo Mazzini, ha un cartello «Nicò nun ce lassà», citazione da Ettore Scola. E perché non qui con i suoi compagni anziché dare in appalto alle sardine la protesta interna? Risponde Claudio Poverini, Pd Centocelle: «Ci ho provato, ma poi uno era di Orfini, n’altro diceva che comunque Zinga ha sbagliato. Non ci siamo organizzati». Claudio e compagni però si sono portati la bandiera del Pci: «Per ricordare a chi sta qua quali sono i nostri valori».

Alla fine i sacchi a pelo restano fuori, Santori&Co incontrano prima l’ex ministro Peppe Provenzano e poi la presidente-reggente Valentina Cuppi e Marco Furfaro, già capo della comunicazione dem. Zingaretti non c’è ma ringrazia: «Il fatto che si siano mobilitate le sardine conferma che il Pd è una grande forza della democrazia italiana». L’insorgenza ha un precedente: nel 2013, dopo i “101” che avevano cecchinato Prodi al Colle e le dimissioni di Bersani, si erano scatenati i ragazzi di Occupy Pd e molte sedi erano state invase da giovani arrabbiatissimi. Fra i leader c’erano Pippo Civati ed Elly Schlein. Frequentava le assemblee anche Anna Ascani. Oggi Ascani fa la sottosegretaria, Schlein fa la vice di Stefano Bonaccini (il presidente dell’Emilia considerato il mandante morale dell’addio di Zingaretti). Civati invece fa l’editore. Ed è l’unico che ha voglia di ricordare: «“Occupai” è un passato remoto. L’unica cosa analoga a quei tempi è che i nomi che circolano sono gli stessi di allora: Finocchiaro, Pinotti, Orlando e Fassino. Il tempo cambia ma noi no». Non ce l’ha con le sardine: «Magari la loro “zingarata” sortisce qualche effetto». Ce l’ha con il Pd «ma ormai è come sparare sulla croce non rossa».

Grillo come nel 2009

Il partito è allo sbando, Beppe Grillo lo dimostra. «Mi propongo per fare il vostro segretario elevato del Pd», annuncia, «facciamo un progetto in comune, ne usciremo in un modo straordinario». Stavolta il precedente è del 2009: Grillo voleva partecipare alle primarie, si era iscritto alla sezione di Arzachena, la più vicina alla spiaggia sarda in cui trascorreva le vacanze, «poi mi dettero indietro i soldi e la tessera e Fassino fece la sua premonizione dicendo: si faccia un partito». È andata così. E oggi se il M5s non ride, il Pd piange. E Matteo Renzi gode. «Era normale che dopo il fallimento della strategia “o Conte o morte” qualcosa potesse accadere», scrive sulla sua eNews, «l’asse con i Cinque stelle sembra oggi inossidabile al punto da permettere a Grillo la provocazione della candidatura alla guida del Pd».

In queste ore il Pd nella tempesta è in mano a un triumvirato: Andrea Orlando, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini. I tre ministri, i tre capicorrente. In solidarietà con Zingaretti dalla «base» sono arrivati appelli e lettere. «Nicola ripensaci» sono le parole ufficiali di (quasi) tutto il gruppo dirigente. Le parole sincere sono di rabbia contro un addio improvviso, alla cieca, di una nave lasciata in piena bufera. Zingaretti infatti si difende: «Il Pd è una grande forza democratica a cui guardano milioni di italiani e italiane. A loro dico: non preoccupatevi ce la faremo troveremo la strada. Ora c’è un’esigenza di chiarezza». Ma i giorni del caos non sono quelli in cui fare chiarezza. I triumviri, in collegamento continuo, cercano l’accordo su un nome che vada bene a tutti. Per otto mesi, un anno, finché non si potrà celebrare il processo. In corsa l’ex ministra Roberta Pinotti, area Franceschini, l’ex senatrice Anna Finocchiaro, e il zingarettiano Nicola Oddati. In ogni caso, sarà un segretario di transizione, costretto a rispondere alle correnti che lo hanno eletto. Insomma debole.

Una debolezza che preoccupa persino palazzo Chigi. Il Pd di fatto avrà un “garante”, come i Cinque stelle. E un Pd debole e senza una linea vera non può fare da bilanciamento all’attivismo della Lega e alla presenza solida di Forza Italia. Insomma: se la parte sinistra della maggioranza di governo si fa leggera, la bilancia – volente o no palazzo Chigi – penderà sul lato di destra.

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