«Sono autonomo e libero, senza prezzo». Sono «orgogliosamente» un uomo del sud. Con un lungo comunicato, Luigi de Magistris annuncia la sua candidatura in Calabria alle prossime elezioni regionali. L’obiettivo è sparigliare i giochi della politica, diventare il punto di riferimento di movimenti civici e sinistra diffusa, guardare al vasto mondo dell’astensionismo (il partito più forte con circa il 60 per cento), offrire una sponda agli elettori delusi del Pd.

A chi in questi giorni lo accusa di essere «uno straniero» colonizzatore, il sindaco di Napoli ricorda i suoi legami familiari con la Calabria (moglie catanzarese, un figlio nato in quella terra), e soprattutto i suoi anni da pm a Catanzaro. Da «uomo di giustizia che si è anche scontrato con la legalità formale divenuta abuso del diritto». Infine un appello a calabresi «per un processo di liberazione dal basso» da un sistema politico che «ha annichilito le potenzialità di questa terra».

La candidatura del sindaco di Napoli, alla fine del suo secondo mandato, provoca fibrillazioni nel mondo politico calabrese. Su un orizzonte molto lontano, la Calabria con i suoi drammi acuiti dalla pandemia e dalla crisi sociale. Domenico Cersosimo, economista e professore ordinario all’Unical, propone la realtà calabrese come un caso da studiare di «modernizzazione passiva». La Calabria, ha scritto recentemente su Il quotidiano del Sud, consuma senza produrre, ovvero, consuma molto più di quello che produce. La qualità della vita dei calabresi dipende in proporzioni “patologiche” dalla spesa pubblica, vale a dire dalla politica, che in Calabria, più che altrove, si configura come il vero e unico grande tutto. La dipendenza dai sussidi pubblici è «una piaga congenita», accentuata dagli effetti sociali ed economici della pandemia. Sull’occupazione (dal 2008 a oggi si è ridotta di 40mila unità), sul pil pro capite (crollato del 10,6 per cento, 2mila euro per ogni calabrese), sulla disoccupazione (arrivata al 21 per cento, con quella giovanile ormai al 49). Sono dati drammatici che fanno passare in secondo piano il dibattito sui nomi e sullo “straniero invasore”.

«Non tocca a me lanciare appelli, tanto le cose che dicono gli intellettuali la politica non le prende in considerazione. Ma consiglierei alle forze democratiche, liberali, alla sinistra e ai movimenti civici, di chiudersi in una stanza e decidere nomi e programmi. Pochi punti, un piano straordinario per impedire la fuga dei giovani, progetti per la salvaguardia del territorio e la valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale. Non è il libro dei sogni, ma quello delle cose fattibili. Che solo uomini disposti a sognare possono realizzare», Vito Teti è antropologo di fama mondiale e scrittore, appassionato uomo di sinistra guarda alla sua terra con dolore. «La Calabria la ami e non sai perché. È una terra di eccessi, in positivo e in negativo. Ha bisogno di cura, è una realtà che è sempre sul punto di farcela, ma poi crolla. Abbandona la sua anima rivoluzionaria e utopica e fa prevalere la sua anima rassegnata, e torna al vecchio status quo».

E la classe politica, i ceti cosiddetti dirigenti? «Non percepiscono la realtà, sono dentro una tempesta e fanno finta di nulla. Sono sempre pronti a lamentarsi, a dare responsabilità agli altri, Roma, Bruxelles, e mai a dire la verità. A parlare della loro incapacità a utilizzare i fondi europei, dell’assenza di politiche che sappiano valorizzare le nostre risorse territoriali e culturali, quelle che elogiano ma solo in modo retorico. Il ceto politico di questa terra è chiuso, autoreferenziale, si accontenta di soddisfare piccoli interessi, non ha il senso del bene comune e vive ogni ipotesi di cambiamento con paura».

Calabria, una terra dove la politica è il tutto, come scrive il professor Cersosimo, ma che da anni non va a votare. Ultime regionali, astensione oltre il 50 per cento. «Al ceto politico – è la risposta di Teti – non interessa che la gente vada a votare. Dal canto loro, gli elettori sono sfiduciati, non vedono differenze tra gli schieramenti. Destra e sinistra rappresentano gli stessi ceti sociali, e non hanno questo gran desiderio di cambiare le cose. Non ci sono più sistemi che si combattono, vige la regola non scritta della spartizione bipartisan, alla fine il vincitore conta poco, tanto ognuno avrà la sua parte».

Il potere della politica

«Certo, qui la risorsa più potente è la politica. Ma riuscire a districarsi in quella calabrese è impresa ardua». Mauro Francesco Minervino è antropologo, scrittore (Statale 18, tra i suoi libri più belli), osservatore disincantato della sua realtà. «Con la pandemia le forze vive della Calabria si sono come ritratte, il corpo sociale esce infragilito dall’emergenza, e la politica è sempre più scissa dalla realtà, autoriferita. Il ceto politico è abbarbicato al potere, e la Regione in quanto istituzione ne è il fulcro».

La Regione, il suo simbolo monumentale è la Cittadella, l’enorme palazzo alla periferia di Catanzaro. Centro di potere e allo stesso tempo di impotenza. Lo storico Piero Bevilacqua la descrive così: «Un edificio gigantesco, che fa impallidire per solennità il palazzo di Vetro delle Nazioni unite. A osservarlo, pensando alle prove che hanno dato i governi regionali negli ultimi quarant’anni, si rimane senza parole. Per quali meriti una così imponente autocelebrazione? Non saprei come interpretarla, visto il bilancio politico che oggi si può trarre, se non come monumento alla capacità dei gruppi dominanti calabresi di distruggere il proprio territorio».

E la gente, l’opinione pubblica calabrese? «Il voto, la crisi politica, sono fenomeni indipendenti da come vanno le cose nella società. È come se la gente qui avesse già fatto a meno della politica. C’è una pericolosa tendenza oclocratica, una sorta di governo delle masse senza direzione. Non abbiamo un sistema di trasporti moderno, la sanità, tranne quella privata, è un disastro, i dati su emigrazione e disoccupazione giovanile sono devastanti, e tutto galleggia. È come se la società si fosse abituata al caos e avesse scelto di andarsene per i fatti suoi. Il potere è trasversale, tutto si tiene grazie a un patto scellerato che annulla le differenze. Lo scambio con la ‘ndrangheta e i poteri massonici, è la regola. Il ceto politico fonda la sua legittimazione su due grandi bacini, sanità e spesa pubblica. Il collante è un patto sociale tra le élite che rende la politica una setta trasversale, intercambiabile, dove colpe e responsabilità sono annullate. La politica, quando si trasforma in potere, è la parte più arretrata di questa regione, la più primitiva, unita solo quando si tratta di difendersi da ogni ipotesi di cambiamento. Basta vedere il caso Lucano, in qualsiasi altra parte del mondo l’ex sindaco di Riace sarebbe stato considerato un eroe sociale, il miglior candidato. Qui viene respinto come un corpo estraneo. Non si tratta della sua disponibilità o meno a candidarsi, è il sistema che lo esclude a priori».

Il freno della burocrazia

«Come tutti i poveri del sud del mondo, i calabresi fanno notizia solo quando si parla di sciagure». Tonino Perna è professore di sociologia economica all’università di Messina. Un intellettuale non estraneo all’impegno politico. È vicesindaco di Reggio Calabria e ha affiancato il sindaco “buddista” e pacifista di Messina, Renato Accorinti. «L’attenzione dei calabresi verso le prossime regionali è bassissima. Le regioni come istituzioni hanno deluso, sono un passo indietro della democrazia. La pandemia si è incaricata di dimostrarlo mettendo a nudo l’esistenza di più sistemi sanitari, raramente all’altezza dell’emergenza. In Calabria c’è un po’ di movimento, 140 intellettuali hanno firmato un documento, la sinistra vorrebbe Anna Falcone, il Pd è diviso in cinque clan e ancora non ha un nome. Ma chiunque vada a governare troverà il moloch della burocrazia. Pensi che per trovare un hotel Covid a Reggio, i burocrati del comune hanno impiegato 50 giorni, ed era una emergenza. La burocrazia in Calabria è patologica. Un candidato alla guida della regione dovrebbe per prima cosa dire che la sanità deve tornare tra le competenze dello stato, che altri poteri devono essere trasferiti ai comuni, unici e veri nuclei di democrazia».

Leggi anche – De Magistris c’ha preso gusto: «Ecco perché voglio candidarmi in Calabria»

© Riproduzione riservata