Domandarsi se la valle di Susa sia ancora la fortezza del M5s pone di fronte al destino politico di un partito che ha trasformato il suo architrave ideologico, il “no”, in una successione di “sì”.

Giorgio Bertola, già candidato Cinque stelle alla carica di presidente della regione Piemonte nel 2019, e Francesca Frediani, capogruppo del Movimento, si sono dimessi ieri mattina, decapitando politicamente la loro organizzazione politica in Piemonte: la loro scelta è riconducibile alla rotta che il M5s ha vissuto sul tema della Torino- Lione.

Due volti storici, sopratutto Frediani, che era l’ultimo collegamento tra il movimento No Tav e il M5s, nonché l’ultimissimo barlume di speranza per gli irriducibili che ancora credevano in una conversione del partito fondato da Beppe Grillo: «Finchè – ha scritto Frediani – non governi non puoi capire, all’opposizione non conti niente: questo mi sento dire dagli strenui difensori del nuovo M5s, il partito di chi è disposto a tutto pur di rimanere alla guida del paese. Il partito che ha abbassato troppe volte la testa pur di non infastidire l’alleato di turno.

E intanto in valle la devastazione continua, la repressione aumenta e si accanisce su persone a cui voglio bene. Amici, compagni di viaggio. Ma da troppo tempo sul mio territorio il M5s è assente, chi era accanto a me fino a qualche tempo fa è scomparso, disilluso se non proprio arrabbiato. Non erano loro a dover andare via, così come ora non dovrei essere io ad uscire. Ma questa nostra casa è diventata invivibile».

Da ieri l’identificazione storica tra i due movimenti, No Tav e M5s, è finita e non è da escludere una frana tra i parlamentari eletti grazie ai voti No Tav, in primis Luca Carabetta e Alberto Airola. La risposta alla domanda originaria quindi potrebbe essere senza scampo per i pentastellati, come lo è stata per Rifondazione comunista, i verdi, o altri che in val Susa molto hanno promesso.

Universo composito, la valle di Susa è riuscita a trasformare l’antipolitica in iperpolitica: esperienze come il Festival dell’alta felicità di Venaus hanno mosso centinaia di migliaia di partecipanti da tutta Italia, che hanno trovato una identità culturale in cui riconoscersi, nonché modelli ideologici da replicare: esiste quindi un mondo in cui l’analisi politica di questo territorio è legge o quasi.

In origine furono i partiti di sinistra ad attraversare la valle: Pecoraro Scanio, Paolo Ferrero, Fausto Bertinotti giunsero nel governo di Romano Prodi che in origine, nel mastodontico programma di oltre mille pagine del 2006, cancellava la Torino-Lione: nel 2008 però, come abiura verso il ribellismo interno, arrivò la firma del “dodecalogo”, il cui cuore era il “sì” al Tav.

Sono storie antiche e dimenticate che hanno creato profondissimi solchi culturali in valle di Susa e non solo, solchi in cui hanno germogliato la ripulsa verso le organizzazioni politiche tradizionali e, al contempo, la nascita di appartenenze e meccanismi di partecipazione che hanno trasformato l’Italia. Anni in cui Grillo frequentava i presidi No Tav e demoliva i “partiti”, anche infilandosi dentro guai giudiziari da cui si è salvato solo in tempi recenti.

La simbiosi delle origini

Manifestazione dopo manifestazione, polentata dopo polentata, la compenetrazione tra No Tav e M5s è stata profonda, con un consenso massiccio nelle elezioni politiche del 2013 e ancora nel 2018.

Due anni prima la sindaca di Torino Chiara Appendino – colei che ha la posizione più netta sul Tav: «vicenda chiusa» – aveva preso il palazzo del Comune defenestrando la più accanita componente pro Tav d’Italia, il Partito democratico di Torino, il cui furore derivava anche da rancori in arrivo dagli anni Settanta con la sinistra extraparlamentare raggrumatasi in val Susa, in particolare a Bussoleno: ruggini vive, personali, insuperabili e reciproche.

Un’intera filiera di potere è stata mandata dalla valle di Susa nei gangli dello stato per fermare la grande opera per eccellenza, ma la storia è andata diversamente.

«Abbiamo lottato ma non possiamo fermarla da soli», proclamano oggi i pentastellati, «non ci avete manco provato», ha risposto nei momenti di scoramento, ormai superato, il movimento No Tav: ricevendo in cambio post furibondi da parte del fondatore Beppe Grillo, sentitosi punto sul vivo da Alberto Perino, il “volto” del movimento No Tav nonché il più vicino al M5s, che disse: «Siamo abituati alle fregature, ma voi sparirete dal parlamento e dalla scena politica italiana».

Grillo gli rispose così: «In Val di Susa ho rimediato un candelotto in faccia e quattro mesi di condanna, ma il peggio è essere stato al fianco di uno che oggi (solo per il fatto che questo è un paese democratico) mi dà del traditore. Questa è una delusione, non perché abbiamo mai mangiato insieme, piuttosto per averla così sopravvalutata».

Eppure l’inizio dell’avventura di governo aveva acceso entusiasmi: Danilo Toninelli ministro delle infrastrutture rappresentò la speranza della vittoria finale e dalla val Susa subito giunse una richiesta assai concreta: rimuovere Mario Virano dal vertice di Telt (Tunnel Euralpin Lyon Turin, la società italo francese che progetta e costruisce l’infrastruttura), scelta che avrebbe prodotto un blob burocratico, politico, diplomatico senza scampo, impantanando il progetto in nome dello spoils system. Mario Virano non ha mai rischiato nulla.

Emilio Scalzo è un «attivista No Tav instancabile» come definito dalla procura di Torino, recentemente sulla sua vita da romanzo è stato pubblicato il libro A testa alta, edizioni intra moenia, firmato da Chiara Sasso, in cui racconta anche il suo rapporto con il M5s. Scalzo, 65 anni e un fisico da pugile che potrebbe combattere domani mattina, è forse il volto più popolare del mondo No Tav, conosciuto in tutta Italia per la sua generosità, un trascinatore senza rivali che mise a disposizione del M5s il suo genuino entusiasmo: «Io lo dissi a Crimi e a Di Maio che avrebbero trovato una guerra sulla vicenda Tav in Parlamento. Ma quando hanno visto un elmetto hanno alzato le braccia e si sono arresi subito».

«Ma comunque – aggiunge – io non mi demoralizzo. Il movimento No Tav andrà avanti come ha sempre fatto, fino alla fine, e non ci arrenderemo mai», forse anche in virtù di un senso di appartenenza strutturale, che travalica differenze: un sentimento che si riscontra anche nelle parole di coloro che nel partito di Grillo non hanno mai creduto. Nicoletta Dosio, fondatrice del liceo Norberto Rosa di Bussoleno e docente di greco e latino per decenni, militante di sinistra, è finita in carcere a settantré anni per una manifestazione pacifica in autostrada: «Il rapporto tra questo territorio e la politica è stato conflittuale fin dal principio, quando la Torino-Lione ci fu imposta brutalmente. Abbiamo imparato che non esistono governi amici, spesso le promesse si perdono per strada perché è il sistema che crea cortocircuiti tra ciò che viene promesso e ciò che accade: non ci abbattiamo, ma ci organizziamo per cambiare il sistema, interamente. Il Tav è una parte per il tutto».

Il cantiere rimandato

Sembrava tutto risolto appena un anno e mezzo fa, quando si sostanziava l’analisi costi benefici del professor Ponti e del ministro Toninelli: il materialismo scientifico a cinque stelle veniva poi messo da parte per motivi politici che permettevano al governo M5s-Lega di sopravvivere e sbloccare, sulla carta, i bandi per la costruzione di diverse tratte che compongono la linea italo francese.

Sono passati trenta anni da quando la Torino-Lione fu teorizzata e, seguendo il cronoprogramma semi ufficiale del ministero delle infrastrutture, ce ne vorranno altri dodici per completarla. Gli ultimi due anni di allungamento sono recenti, dipendenti da una non precisata «revisione del progetto», ha detto la ministra Paola De Micheli pochi giorni fa.

Entro il 31 dicembre si doveva aprire un cantiere a san Didero, in piena val Susa, ma i violenti scontri avvenuti tre settimane fa nei boschi dove si sta costruendo una bretella ad uso dei camion che smaltiscono lo smarino del tunnel geognostico, la creazione di un nuovo presidio No Tav e, ufficialmente, il Covid, hanno portato ad una posticipazione di qualche giorno o settimana: ci saranno senza dubbio scontri dalla cui gravità si riverbera sulla tenuta del M5s al governo.

Le gare di appalto in corso sono pari a 3,2 miliardi e la relativa assegnazione dovrebbe avvenire nei primi mesi dell’anno nuovo: la Torino-Lione si porrà come ennesima mina vagante sulla strada del governo M5s-Pd per quanto concerne i fondi del Recovery fund, in quanto considerata dal primo «anti economica, di cui non si conosce l’effettivo impegno dell’Italia né quale sarà la copertura dei contributi comunitari», come hanno sostenuto pochi giorni fa in commissione trasporti prima di abbandonare i lavori, evitando però un voto contrario: il contratto di programma tra il ministero delle Infrastrutture, Telt e Ferrovie, da cui dipendono gli appalti, è passato grazie ai voti di Partito democratico e del centrodestra.

 

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