Le foto degli anziani. Gli anziani che scappano dall’Ucraina, dalla terra in cui hanno vissuto con fierezza e pensavano di morire. Quella donna sola, che scende le scale della stazione col foulard legato in testa, alla contadina. Il nonno che tiene in braccio i due nipotini, in mezzo a una bufera, al confine fluviale con la Romania. La signora sulla sedie a rotelle, sotto un plaid ricoperto di neve e lo sguardo di chi smarrisce il passato.

Pensavo ai ritratti di guerra, quelli che ci restituiscono le immagini degli anziani, le vittime più spacciate di questo conflitto. Le persone che ancora una volta sono i pazienti fragili, destinate a soccombere di fronte a un nuovo nemico invisibile che piomba giù dal tetto, che rimbomba dalle finestre, che se ti costringe ad abbandonare casa forse la casa non la rivedrai più.

Come chi, troppo anziano, va in ospedale col Covid. Come chi, troppo anziano, lascia l’Ucraina. Viaggi dai ritorni improbabili, carichi di paura e malinconia.

Pensavo a questo nei giorni della guerra mentre, in una dimensione più gentile, senza le bombe e il nemico che ti spara contro, si consumava un evento doloroso nella mia famiglia.

Un paradiso a carbone

Mia madre e mio padre, 78 e 87 anni, sono stati costretti a lasciare il luogo dei loro 56 anni di matrimonio, Civitavecchia.

La città della centrale a carbone di cui si discute da decenni e di cui si discute oggi più che mai, perché è forse destinata a lavorare a pieno regime per rimediare alla carenza di gas russo. Sono cresciuta all’ombra di quelle torri, con mio padre che ogni mattina controllava dove tirasse il vento per sapere se il fumo sarebbe arrivato dai noi e con mia mamma che ci mostrava la polvere nera sui panni bianchi.

Quella centrale, strano a dirsi, è stata una presenza inquietante e pure un pezzo di gioventù dei miei genitori, che per protestare contro il carbone scendevano in piazza, litigavano con i politici, confabulavano con cittadini indignati.

Forse, e non lo sapremo mai, per per quella centrale i miei genitori si sono anche ammalati come tanti concittadini cresciuti sotto il fumo della Torrevaldaliga, eppure, sotto quel fumo sono stati anche giovani, combattenti, vivi.

Noi tre figli, lontani centinaia di chilometri, non siamo mai riusciti a spostarli da lì. In vecchiaia hanno persino dimenticato la polvere nera che li angosciava, il fantasma della centrale nucleare di Montalto di Castro pochi chilometri a nord.

Per mio padre, oggi, nella rivisitazione benevola tipica della vecchiaia, quello «è il paradiso». Un paradiso perduto, perché i miei genitori, adesso che la malattia s’è fatta crudele per entrambi, hanno dovuto lasciare tutto e trasferirsi al nord, accanto a due figli amati, sì, ma che come per tanti anziani sono rami, non radici.

I miei genitori sono stati sradicati come ulivi stanchi, e so per certo che se uno dei due - mia mamma - non fosse stata rosicchiata fino all’osso dall’Alzheimer, se mio padre non avesse esaurito ogni possibilità di prendersene cura, sarebbero rimasti lì, nel paradiso storto della loro giovinezza

. E mio padre ci ha provato a resistere, a negare l’evidenza, a lottare con imprudente ostinazione perché nulla cambiasse, mentre già era tutto cambiato.

Scappare e lasciar andare

Non sono scappati dalla guerra i miei genitori. Mio padre la guerra l’ha vista, ricorda le bombe, le notti a dormire nei fienili, gli aerei sulla testa. Conosce la differenza tra scappare e lasciare andare, tra l’orrore della guerra e l’accettazione della vecchiaia. E però sa anche che a quell’età ci sono strade che non si percorrono all’indietro.

Ha venduto la sua casa, ha preso pochi oggetti (i vestiti, qualche ricordo, perché dove le metti a 87 anni le cose di una vita?) ed è venuto stare a Milano, una città estranea, in un presente opaco e il passato raso al suolo.

Ho pensato agli anziani, a tutti gli anziani che lasciano per sempre il terreno gentile dei ricordi e al senso dell’addio nei loro sguardi. Noi figli ci proviamo ad alleviare la pena, a parlare di domani, ad accarezzare il presente, ma le radici erano troppo lunghe, sradicare vuol dire spezzare, la pianta soffre di una malattia incurabile: l’assenza di futuro.

Ed è in questo contesto di dolore, dopo due anni in cui tanto mi sono occupata di rsa da cronista per via del Covid, che la parola rsa ha preso la forma umana e penosa dell’addio a un genitore per come lo hai sempre pensato, dove lo hai sempre pensato.

Mia mamma, per esempio, la penso lì, nel giardino disseminato di sassi raccolti al mare, tra i ritagli di giornale e i profumi delle torte verdi, quando dimentico chi è oggi.

Nessuno sa cosa significhi decidere che è arrivato il momento di portare un genitore in un istituto. C’è la fatica- ammirevole- di chi spende la sua vita ad accudire e c’è lo strazio pudico, ammantato di sensi di colpa, di chi non può accudire. Mia mamma aveva esaurito il suo tempo felice e consapevole negli spazi della quotidianità da un paio di anni. Mio papà non lo accettava. Lei stessa non lo ha accettato, finché ha capito.

Sapevamo che l’Alzheimer diventa ingestibile, pericoloso. Che ha una parabola precisa, a cui non ci si può opporre. Eppure mio padre s’è opposto a lungo, fingendo che potesse pensarci lui, che avesse la forza per sollevarla, di cambiarla, fingendo di chiacchierare con una moglie che non gli rispondeva più da tempo, fingendo che il tempo di consegnarla nella mani di chi se ne sarebbe preso cura non sarebbe arrivato mai.

E invece è arrivato il giorno in cui si sono fatte le cose che vanno fatte quando una persona deve entrare in questa specie di città stato, di luogo in cui le persone sono lontane pochi passi da te e distanti anni luce da sé, da quello che è stata la loro vita fin lì.

E allora si preparano i vestiti, i pigiami, le calze da mettere in una borsa che tornerà indietro senza il viaggiatore.

Gli incontri saranno visite, prenderò appuntamento per strappare forse un sorriso a un volto smarrito, che non è più quello di mia madre eppure è ancora quello di mia madre quando ascolta De Gregori e le scappa qualche parola da cantare o quando ancora ride di mio padre che è sordo come una campana.

Decisione senza scelta

C’è un dolore poco raccontato in questa scelta che poi scelta non è, perché sebbene si sia consapevoli dell’impossibilità di rinunciare a lavoro e famiglia per prendersi cura di un anziano, il pensiero non detto che sì, per un genitore dovresti farlo, è sempre lì. Respinto, ingiusto e detestabile, ma c’è. E così, mentre penso a tutto questo, guardo il modulo per la Rsa.

Finite le pagine della burocrazia, c’è un ultimo foglio da compilare per il suo ingresso: «Cose che la possono spaventare o far arrabbiare», «Cose che la fanno sentire meglio quando è ansiosa/arrabbiata», «Aneddoto positivo sulla propria storia di vita che ama raccontare», «Portare un paio di oggetti significativi per la persona come libri o fotografie». Sembrano le domande delle maestre quando si porta il bambino alla scuola materna.

Mi assale una tristezza penosa, irrecuperabile. Mia mamma è una bambina con cui degli estranei volenterosi dovranno imparare a comunicare. Il suo passato non è più un bagaglio, è un appiglio. Non è ciò che resta, è ciò da cui si attinge per darle conforto.

La affidiamo a mani sicure, perché possa vivere quel che le resta da vivere nel modo più dignitoso che esista, che è lontano da noi.

Penso all’aneddoto che la faceva sorridere. Forse quando sua madre le tagliò i capelli mettendole una padella in testa e seguendo il bordo con le forbici. No, forse quello la faceva arrabbiare. Ma i racconti preferiti di mia madre erano quelli che la facevano arrabbiare, come lo spiego a degli estranei che mia madre era divertente ma sempre arrabbiata? La foto del matrimonio andrà bene o potrebbe immalinconirla? E cosa la spaventava? Non mi ricordo una sola paura di mia madre, a parte quella generica di vivere.

Ah sì, mia madre aveva paura della guerra. E allora ripenso agli anziani, a quelle foto spaventose, alle fughe, agli occhi di chi sa che da certi viaggi non si torna.

Penso che mia mamma, del suo viaggio, almeno, non è consapevole. Penso che adesso bisogna pensare a mio padre.

Non ci sono bombe, ma ha 87 anni e non ha più radici. Non è la guerra, ma è l’addio dei vecchi, un addio che è uguale per tutti i vecchi, quando non hanno più il profumo delle loro cose a farli sentire al sicuro. 

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