Se quella di ieri non è stata la giornata più nera di Elly Schlein dal giorno in cui ha preso la guida del Nazareno, poco ci manca. A Roma, la segretaria deve rimangiarsi l’idea di mettere il suo nome nel simbolo del Pd per le elezioni europee del 9 giugno. A Potenza, nella regione in cui si è votato, quando parte lo spoglio si sgrana un rosario triste per il centrosinistra: gli instant poll commissionati da Telenorba certificano la vittoria schiacciante della destra. I primi dati reali confermano l’affermazione netta e pesante del forzista Vito Bardi: oltre 10 punti di stacco dal democratico Piero Marrese. Ed è chiaro che gran parte di questo risultato è dovuto alla serie di pali presi dallo stesso Pd prima di indicare l’ultimo candidato presidente, tutti causati dall'accondiscendenza verso i veti nominali di Giuseppe Conte.

La colpa a Bonaccini

Dunque il simbolo del Pd consegnato ieri pomeriggio al Viminale non contiene il nome di Schlein. La segretaria fa un passo indietro, e di nuovo lo fa all’insaputa di tutti, o quasi. Non convoca la riunione di segreteria annunciata per ieri, con la quale sembrava di voler condividere la sua scelta finale. Del resto, dopo averne discusso in direzione, «ripetere il confronto» nell’esecutivo non ha senso, viene spiegato anche da chi era in disaccordo. Alle 15 Schlein parla su Instagram, direttamente con i suoi follower. Chi del Pd è interessato, si collega come gli altri. E ascolta: prima la presentazione dei candidati, poi la decisione: «Ringrazio chi ha fatto quella proposta», quella del nome nel simbolo, «ma io penso che il miglior contributo che posso dare sia correndo in questa lista a fianco dei candidati. Questa mi è sembrata una proposta più che altro divisiva».

La responsabilità dell’ipotesi viene scaricata sulle spalle del presidente del Pd Stefano Bonaccini, che in effetti l’ha materialmente formulata in direzione. E cosi l’area della minoranza riformista finisce due volte in scacco: prima per essersi assunta, a favore della segretaria, la paternità della scelta (su cui poi i riformisti si sono spaccati); poi allo stesso Bonaccini viene imputato di aver immaginato una pensata «divisiva».

È la verità, ma solo in un certo senso. L’idea del nome del simbolo in effetti era stata vista da Bonaccini, e ancora prima da Davide Baruffi, responsabile enti locali, come il male minore, per sventare l’intenzione della segretaria di candidarsi in tutte le circoscrizioni, in posizioni un po’ random, con l’effetto di penalizzare le preferenze soprattutto verso le altre candidate.

Comunque Schlein se ne lava le mani. Le liste restano quelle annunciate domenica. Però la segretaria aggiunge sibillinamente: «Tra i candidati ci sarò anche io. Voglio portare il più in alto possibile il Pd. C’è stato un dibattito lungo, ma sento la responsabilità di dare una mano». A qualcuno sembra un avviso di chi vuole giocare il tutto per tutto nel prossimo voto: se non volete il mio nome sul simbolo, mi candido ovunque come avevo proposto in precedenza. Ma non si può tornare alla casella di partenza: se Schlein rientrasse nelle liste, riaprirebbe tutti i problemi risolti in lunghi mesi di riflessioni e trattative: dal Nord Ovest, dove la sua corsa in qualsiasi posizione metterebbe in difficoltà la capolista Cecilia Strada; al Nord Est, dove metterebbe in difficoltà Annalisa Corrado, che pure le è vicinissima. Per non parlare della lista del Sud, dove rischierebbe per danneggiare tanto la terza in lista Pina Picierno, quanto la capolista Lucia Annunziata.

La severa Annunziata

Che ieri alla segretaria aveva mandato un messaggio WhatsApp molto chiaro e serio: si era dichiarata in «completo disaccordo» sull’operazione perché «il nome nel simbolo è la trasformazione del Pd in un partito personale proprio nel momento in cui la maggioranza ha presentato una riforma, il premierato, che distrugge l’attuale assetto costituzionale». Per questo la giornalista, la prima candidata ad essere stata lanciata dalla stessa segretaria, «mette a disposizione» il suo posto da capolista: tradotto, minaccia di mollare.

Il suo messaggio ha contato. Almeno quanto i no che Schlein ha ascoltato fuori dal partito – quello di Romano Prodi innanzitutto, più duro e generale sulla candidatura «civetta», senza poi restare a Bruxelles – e quelli nella direzione di domenica. E prima in segreteria, formalizzati da Peppe Provenzano, Marco Sarracino e Debora Serracchiani. Pesanti anche i no che la segretaria non ha sentito in chiaro, quelli dei big rimasti zitti in direzione: come Dario Franceschini, che viene raccontato basito alla proposta; e Alessandro Alfieri, che a metà direzione lascia il Nazareno, descritto come sconcertato. «Mancava solo il no di papa Francesco», scherza un dirigente riformista. La segretaria su Instagram parla invece di «discussione bellissima».

Per evitare la confusione ulteriore, e altri conflitti, nel pomeriggio fonti Pd specificano che alla fine la segretaria «sarà candidata capolista al Centro e nelle Isole, come annunciato in direzione, e non correrà nelle altre circoscrizioni». Per non aggiungere malumori a malumori: persino il mite Pietro Bartolo, il medico dei migranti che approdano a Lampedusa, dice di dover riflettere sulla sua candidatura. Si rammarica perché l’impegno da eurodeputato non ha avuto «la giusta considerazione», insomma non è stato piazzato in testa di lista. Schlein su Instagram lo omaggia: «Sono molto legata a Pietro Bartolo, alle sue battaglie per i migranti».

In ogni caso l’ipotesi del nome in lista è stato un passo falso che ha spaccato la maggioranza e l’area riformista. La chat della segreteria in mattinata è quasi inerte: c’è chi chiede di ripensarci, ma la segretaria sta ancora meditando. Alla fine, quando comunica la decisione, Sarracino e Provenzano – i due della sinistra che l’avevano contestata apertamente – parlano di «scelta saggia», e Andrea Orlando si complimenta: Schlein è «una leader che ha dimostrato di saper ascoltare il dibattito interno al partito». Ma il bilancio della giornata è amaro: la pessima partenza della campagna elettorale e la Waterloo lucana.

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