Sembra il 2018, con i barbari alle porte in procinto di vincere le elezioni, ma c’è una differenza: c’è stato il 2018. E con esso la consapevolezza che è assai arduo mantenere il governo inimicandosi mercati e amministrazione americana, senza dover qui scomodare il tweet trumpiano a sostegno di «Giuseppi» Conte, che scaricava il sovranista principe Salvini in men che non si dica.

Un Salvini, tra l’altro, mai incontrato da Trump nonostante lo sperticato sostegno in ogni fase della sua presidenza. Oggi, Giorgia Meloni, candidata in pectore come prima presidente del Consiglio donna del nostro paese, pare aver imparato bene la lezione e non passa giorno in cui non esibisca il suo ritrovato atlantismo, il suo sostegno all’Ucraina e persino inediti toni moderati, addirittura chiedendo una campagna elettorale pacata, razionale e fondata su proposte credibili.

Lei, che fino a poco fa chiedeva il blocco navale, formalmente un atto di guerra, per fermare l’immigrazione clandestina dalla Libia. Atlantismo che si è esteso oltre l’Ucraina, arrivando persino a Taiwan, di cui Meloni ha incontrato il rappresentante in Italia il 26 luglio e che l’ha anche portata a sostenere senza mezzi termini l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato.

Cosa, tra l’altro, non proprio in continuità con gli interessi nazionali italiani, che avrebbero voluto un’alleanza più mediterranea. Insomma, la strategia sembra davvero chiarissima, al limite dello sfacciato.

Esempio da non imitare: il Matteo Salvini del 2018. Quello dei due Mattarella per un Putin, o che andava in Russia a dire che si sentiva più a casa lì che in molte città europee, lui che un tempo si sentiva in trasferta sotto il Po.

Anche il quadro europeo, nel 2018 vero obiettivo nel mirino dei sovranisti capitanati da Viktor Orbán, pare molto diverso oggi.

Se già prima il Pentagono considerava la Russia nemico strategico degli Stati Uniti d’America, si chiamasse Unione sovietica o meno, dopo il 24 febbraio non si accettano più compromessi e ambiguità.

Persino Salvini, che si comporta come fosse uno che deve risarcire un debito, ha dovuto mascherare la sua vicinanza a Mosca da un tanto goffo quanto sospetto pacifismo, racimolando, come sempre dal Papete in poi, figuracce politiche e umiliazioni personali.

Ancor di più, se nel 2018 il Gruppo di Visegrad, che doveva fare massa critica in modo da spingere il Ppe verso un’obbligata alleanza con l’estrema destra regressiva, era all’apice del consenso, oggi quasi non esiste più, viste le distanze che separano Ungheria e Polonia sull’invasione dell’Ucraina.

Che, dunque, Giorgia Meloni si lanci all’attacco del sistema dal giorno dopo vinte le elezioni, io non lo credo. Anche se, certo, si starebbe più tranquilli in altre situazioni. I temi veri sembrano altri e riguardano la stabilità che una coalizione di così basso livello politico come quella di destra può garantire al paese.

Anzitutto per litigiosità interna. Sarà maschilismo, sarà protagonismo, ma è chiaro a tutti che Salvini, né tantomeno Berlusconi accetteranno supinamente la leadership di Meloni.

L’uno farà di tutto per distinguersi a destra, facendo con lei, ciò che lei fece con lui quando era al governo. L’altro cercherà di presentarsi come garante di un baricentro moderato della coalizione.

Saranno, questo sì dal giorno dopo ma anche prima, i principali nemici da cui la leader di FdI dovrà guardarsi. Il secondo tema è più strutturale: va bene, Meloni tenta la svolta moderata guidata dal fido Crosetto, ma la sua base, quella che vuole i toni dei comizi da Vox e le strizzate d’occhio a Orban e Putin, la seguirà?

Mi viene in mente cosa mi disse Amos Luzzatto, storico presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e fine intellettuale. Mi raccontava di quando accompagnò Fini in Israele. Gli disse, noi apprezziamo il tuo gesto, ma la tua base non ti seguirà. Andò così.

Fini è stato dileggiato dalla destra italiana, ma, a me pare, siamo sempre lì e non credo che Meloni abbia né forza politica né capacità intellettuali per transitare la destra italiana fuori dalle secche in cui l’ha fatta precipitare un secolo esatto fa Benito Mussolini.

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