Perché è così difficile “tenere insieme” il Pd? Sarebbe fuorviante cercare spiegazioni di tipo soggettivo: siamo di fronte piuttosto ad una sorta di instabilità strutturale, a una faglia profonda che ha incrinato la vita del Pd. E che va colta nel regime stesso di governo del partito: un modello di legittimazione plebiscitaria della leadership, da un lato, intrecciato a una logica di feudalizzazione oligarchica, al centro e alla periferia, dall’altro.

La disconnessione profonda del Pd da pezzi decisivi della società italiana non nasce solo da scelte sbagliate: gli errori in politica sono sempre possibili. Piuttosto, ha pesato molto anche l’assenza di un partito che sapesse svolgere, tempestivamente, il ruolo di “sensore” dei mutamenti in corso nella società italiana. Non solo: il modo di essere e di funzionare del partito ha spesso ostacolato una seria discussione politica sulle grandi opzioni strategiche e un’analisi delle stesse ragioni delle varie sconfitte elettorali che si sono susseguite.

Il modello plebiscitario-feudale che ha retto fin qui il Pd non è più sostenibile: quale che sia il giudizio storico sul progetto originario e sull’identità allora definita, non ci si può oggi non interrogare sulle cause profonde di una così radicale frattura e di una caduta permanente di consensi (che oggi sembra essere fermata e forse anche invertita, stando ai sondaggi, ma di cui permangono intatte tutte le ragioni di fondo). Evidentemente qualcosa non ha funzionato: e non ha funzionato neanche lo strumento, la forma e il modello di partito, la sua organizzazione.

La chiave di tutto va colta nel fatto che nel Pd, così com’è, mancano luoghi, canali e strumenti di discussione e di elaborazione politica, di formazione delle idee, di costruzione di una cultura politica diffusa.

Si dirà: ma ci sono le piattaforme presentate dai candidati; c’è un “mandato”, bisogna rispettarlo. Giusto, ma le “mozioni” (per la loro natura, e per il loro stesso stile letterario, direi anche) possono fornire solo un quadro di orientamento generale, non risolvere tutte le implicazioni programmatiche che ne derivano. Ci si può dchiarare europeisti, ad esempio, ma poi occorre definire una posizione sulle proposte di revisione del Patto di stabilità: dove accade tutto questo?

È insostenibile un modello di formazione delle decisioni che “scarica” tutto sulle spalle del segretario, oppure si affida a una mediazione asfittica in un ristretto inner circle. Non regge: non è sufficiente una leadership solitaria, ma non funziona nemmeno un modello in cui tutto si riduce alla ricerca di equilibri in una dimensione oligarchica. Il che ha condotto spesso, in passato, alla paralisi o a una scarsa intellegibilità delle posizioni del partito.

Autoconservazione

Come uscire da tutto questo? Le soluzioni si possono cercare, ma è un lavoro di lunga lena, e non facile, perché i partiti, e il Pd non fa eccezione, sono spesso prigionieri di una logica inerziale, che tende all’autoconservazione. Ed è davvero singolare che, anche dall’interno del partito, si ergano ora voci che reclamano, dalla nuova segretaria, lo scioglimento immediato di nodi programmatici e strategici che si sono agrovvigliati nel corso di lunghi anni.

Alla nuova segretaria si può e si deve chiedere altro: avviare un processo radicale di ripensamento del modello di partito. In prospettiva, occorre metter mano allo Statuto e alle procedure della democrazia interna. Ma si può comiciare subito a fare delle cose.

Elly Schlein ha annunciato, nella sua relazione, il rilancio (o forse sarebbe meglio dire, la creazione) di una Fondazione unitaria di cultura politica (ed è bene ricordare che, agli inizi del Pd, questa scelta fu esplicitamente esclusa, teorizzando invece il modello dei think tank americani).

È un primo passo. Ma queste innovazioni devono ora riguardare tutta la vita del partito. Ad esempio, attivando un istituto, la Conferenza programmatica annuale (sul modello del Labour Party), pur previsto dallo Statuto e mai utilizzato.

Oppure, riformando radicalmente il ruolo dei Forum tematici permanenti, anch’essi previsti dallo Statuto e che hanno vissuto una vita grama e altalenante: non definendoli come un vuoto spazio di “consultazione”, ma integrandoli stabilmente con i tradizionali settori di lavoro. Insomma, occorre attivare una rigorosa connessione tra partecipazione, discussione e decisione politica. L’unico modo, peraltro, per “mettere alla prova” produttivamente il pluralismo interno.

Ed è bene che sia tutto il partito, e anche forze esterne, a discuterne, come si è incominciato a fare a Bologna, la scorsa settimana, ad un convegno promosso dall’area politica di Gianni Cuperlo, a cui hanno partecipato esponenti di tutto il partito e anche la segretaria, con i due nuovi membri della segreteria, Bonafoni e Taruffi. Titolo: “Ritorno al futuro. Per una nuova idea di partito”. Appunto.

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