«Quello con l’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica è stato l’ultimo incontro che ho fatto in America latina. Alla fine dell’asado (una grigliata di carne, ndr) durante il quale ha voluto svolgere la riunione politica, in campagna, è montato sulla sua Ape, che a lui serve per fare i 500 metri che separano l’azienda agricola dove eravamo dalla sua casa all’inizio del bosco, al Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo. Salutandomi mi ha detto che l’Ape era nuova, l’ha comprata l’anno scorso con grande fatica perché era affezionato a quella vecchia, che era una Piaggio. Questa nuova è cinese. Per lui cambia poco. Ma forse il fatto che la nuova ape di Mujica sia cinese, è un problema per noi».

Quella che segue è una conversazione con Peppe Provenzano, numero due del Pd, sul viaggio “ufficiale” che lo scorso maggio ha fatto in Cile, Brasile, Argentina e infine Uruguay per riallacciare rapporti politici a lungo trascurati fra il suo e i partiti progressisti latinoamericani. Provenzano ha raccontato la sua «missione» anche al Pse, i socialisti europei, proprio nei giorni della vittoria in Colombia di Gustavo Petro, ex guerrigliero ed ex sindaco di Bogotá, con la coalizione Pacto Histórico. Petro avrà come vice l’ambientalista e combattente femminista afroamericana Francia Màrquez. «È la prima volta che in Colombia si affermano forze di sinistra, dopo un accordo di pace, e su un programma che mira a far avanzare democrazia, diritti umani, giustizia sociale e lotta al cambiamento climatico. E questo è il messaggio che viene da una parte importante di quel continente: c'è un’onda progressista, dalla vittoria di Gabriel Boric in Cile, a quella di Petro in Colombia, e speriamo quella di Lula in Brasile. Mentre in tutto il mondo la democrazia arretra, lì è in corso una battaglia per la democrazia portata avanti dalle vecchie e nuove sinistre. Come noi, anche loro hanno bisogno di Europa, e di un’interlocuzione con i progressisti europei.

Cosa se ne fanno dell’Europa i progressisti latinoamericani?

Dalla fine del mondo l’esigenza di un’Europa protagonista, dopo la guerra in Ucraina, è ancora più avvertita. E questo malgrado decenni di promesse non mantenute, penso a all’accordo commerciale fra Ue e Mercosur fermo da vent’anni, incagliato per resistenze corporative. Il bisogno di Europa ha una ragione geopolitica: come ci ha detto Lula, nel nostro processo di integrazione loro vedono un modello per la loro regione. Lula definisce l’'integrazione europea fra paesi che si sono combattuti come “il fatto più importante della storia del dopoguerra”. Ma soprattutto nel protagonismo Ue vedono l’unica possibilità di un ordine mondiale multipolare, che il rischio di una nuova guerra fredda o di una contrapposizione tra blocchi può mettere in discussione. Una logica che lì respingono, e si capisce perché: nel corso del secolo scorso è stata pagata drammaticamente con costi sociali e di vite umane fortissimi.

Parla dell’appoggio Usa, negli anni 60 e 70, ai golpe. Oggi però dall’altra parte però c’è la Russia, e la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina.

La condanna all’aggressione di Putin è generale fra i progressisti, ma ci sono valutazioni diverse sulle responsabilità occidentali. Boric è più vicino alle nostre posizioni. Per noi la difesa dell’Ucraina è un dovere politico e morale. Loro sono più lontani, avvertono le conseguenze economiche e sociali. Ci rimproverano un doppio standard, compriamo ancora il gas dalla Russia ma abbiamo messo il blocco ai fertilizzanti, che lì può provocare povertà e carestie. Ma per noi il tema non è alleggerire le sanzioni, è essere più coraggiosi e coerenti nel fronteggiare la crisi innescata dalla guerra. Al Consiglio europeo l’Italia sta tenendo le posizioni più avanzate. Se l’Europa non farà un salto di qualità anche il nostro peso economico e geopolitico sarà minore.

E qui torniano all’Ape di Mujica.

Fra Italia e l'America latina le relazioni economiche sono già importanti ma hanno potenzialità straordinarie per tutta la Ue. Per troppo tempo abbiamo lasciato il campo libero alla Cina. Tutte le personalità di governo con cui ho discusso hanno posto questo tema: la presenza strategica della Cina non è frutto di una scelta di campo geopolitico ma della nostra assenza. Dobbiamo dare una mano alla battaglia delle forze progressiste, che non è scontata e presenta elementi di fragilità.

Sta dicendo che in un continente in cui ci sono paesi non democratici, di destra e di sinistra, i progressisti hanno bisogno di un supporto che l’Europa non dà?

Quelli democratici sono processi fragili, l’attenzione deve essere massima. A cominciare dalle elezioni brasiliane di ottobre. Lula ha fatto un accordo per la vicepresidenza con Gerardo Alckmin, che ho incontrato, un moderato che viene dal partito socialista. Sono accordi in funzione della difesa della democrazia. Lula è avanti nei sondaggi, ma bisogna tenere i riflettori accesi. Quelle elezioni avranno un significato non solo regionale ma globale. Bolsonaro è un vero amico di Putin, e il suo riferimento in questi anni è stato Trump. Quale sarebbe l’esito di una Capitol Hill a Brasilia o a San Paolo?

Dall’altra parte, il populismo resta una tentazione anche per i progressisti?

L’America Latina è stata patria del populismo, ma in un’accezione abbastanza diversa da quella che diamo noi. Quando in Argentina abbiamo discusso del peronismo, alcuni peronisti “di sinistra” ci hanno risposto: se lo capite fateci sapere. Di certo per Lula, che pure è il leader più forte e carismatico del continente, non si può parlare di populismo. Ed è molto interessante il laboratorio cileno dove la nuova sinistra incarnata da Boric, figlia di una stagione di proteste sociali con toni antipolitici, invece ha scelto l’accordo con la sinistra tradizionale di stampo socialista e un sentiero istituzionale, direi socialdemocratico. Al punto che si ispira a Salvador Allende, che è il nume tutelare del socialismo democratico in Cile. Con il quale anche l’Italia ha vincoli politici, oltreché di affetto. L'ambasciata italiana a Santiago, che tanto ha fatto per i perseguitati da Pinochet, è uno dei luoghi simbolici della democrazia cilena.

Il riferimento ai ceti poveri dice qualcosa alle sinistre europee, o è roba – per fare una battuta – dell’altro mondo?

Dice che il riscatto degli esclusi e la democrazia vanno insieme. E che senza uguali diritti e opportunità si produce il terreno su cui la malapianta del nazionalismo e dell'estremismo di destra può tornare a crescere. In questo momento in Cile è molto letta la Costituzione italiana. È un’ispirazione, per un paese alle prese con un difficile processo costituente a cui Boric ha affidato molte speranze di riforma sociale. Luigi Ferrajoli è uno degli autori più citati. La nostra Costituzione, a partire dall’art. 3, è già un programma.

Allora perché si sono scavati solchi fra progressisti di qua e di là?

Per un paradosso della globalizzazione: nel momento di più alta interconnessione economica e delle relazioni personali la politica si è ripiegata all'interno dei confini nazionali. È il tempo di riscoprire un internazionalismo progressista. In questo momento in America latina si gioca la battaglia dei diritti umani e della democrazia. Mentre in altre parti del mondo la democrazia arretra, li invece sta riportando a vittorie tutt’altro che scontate.

Anche l’Europa corre un rischio democratico, come l’America latina?

L'America latina è un esempio del fatto che scontro fra democrazia e autocrazia è in corso, ma nel mondo lo scontro non è fra due blocchi ma all'interno dei continenti e delle nostre società. Per questo dobbiamo guardarci dalla retorica dello scontro di civiltà. La democrazia va difesa non solo dalle minacce esterne, come la guerra di Putin, ma anche da quelle interne nei nostri paesi. E la prima minaccia sono le insostenibili diseguaglianze sociali.

Se in Italia vincerà la destra vincono gli autocrati?

Vinceremo noi, ma Lega e Fdi hanno legami internazionali con quelle forze illiberali a partire da Orban, l’amico di Putin, che con Bolsonaro e Trump in questi anni hanno rappresentato i poli di un

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