Ci sono i regolamenti europei, le leggi degli stati, il diritto internazionale del mare, le distinzioni formali fra migranti economici e rifugiati, e poi c’è la realtà fatta di persone in fuga che si ritrovano su imbarcazioni di fortuna sulle quali questo groviglio di leggi e di regole spesso s’infrange. 

È accaduto di nuovi nei giorni scorsi in Sicilia dove diverse navi appartenenti a ong hanno sbarcato alcuni gruppi di migranti-naufraghi, dopo trattative e tira e molla con vari governi a cominciare da quello italiano. E, come spesso è avvenuto anche in passato, sul banco degli accusati sono finiti loro, i soccorritori.

In questo eterno gioco al rimpallo delle responsabilità fra le capitali europee, c’è da chiedersi se per esempio la distinzione fra migranti economici e richiedenti asilo abbia ancora un senso. «Tecnicamente il rifugiato secondo la Convenzione di Ginevra è chi è personalmente perseguitato, quindi se fugge da  un conflitto in corso può rientrare nella categoria della protezione internazionale» spiega Oliviero Forti, responsabile politiche migratorie di Caritas italiana. «Tutti gli altri – aggiunge – quanti fuggono dai cambiamenti climatici, dalla fame, vengono rubricati tecnicamente come migranti economici. Di certo questa distinzione non ha più senso perché ci sono comunque persone che scappano da situazioni nelle quali è a rischio la loro vita, d’altro canto si muore anche di fame, non solo di bombe».

Il precedente dei siriani

Sulla stessa linea di pensiero troviamo padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, l’organismo dei gesuiti che si occupa di accogliere in modo specifico i rifugiati ed è parte della rete internazionale del Jesuit Refugee Service.

«La storia e l’attualità – osserva – ci dicono che questa distinzione molte volte è difficile da attuare perché una persona che scappa per motivi economici lo fa perché per esempio ci sono stati nel suo paese dei cambiamenti climatici che impediscono di poter sopravvivere. In alcuni casi poi si sviluppano dei conflitti che sono conseguenza di tali cambiamenti per cui inizialmente si scappa per una ragione alla quale se ne aggiungono altre».

C’è poi il caso di chi parte per cercarsi un lavoro per sopravvivere e finisce in un campo di prigionia in Libia dove subisce torture e oltraggi di ogni genere. Secondo padre Ripamonti «queste distinzioni sono solo degli alibi. Faccio solo un esempio. Quando c’è stata l’ondata dei profughi siriani in Europa nel 2015, poco prima che scoppiasse la crisi si diceva che noi, in Europa, eravamo disposti ad accogliere le persone in fuga dalla guerra ma non i migranti economici; poi, quando i profughi dal conflitto siriano sono diventati un milione, abbiamo fatto un accordo con la Turchia affinché trattenesse tutte queste persone che scappavano effettivamente da una guerra. Molto spesso queste distinzioni sono un alibi dietro cui ci nascondiamo perché non vogliamo affrontare il fenomeno migratorio nella sua complessità».

le Ong salvano vite

Altra questione che torna ciclicamente d’attualità, è quella del ruolo delle navi delle ong; queste ultime agiscono in acque internazionali in assenza di altri soggetti, per esempio dell’Ue, che possano trarre in salvo le persone.

L’accusa che gli viene rivolta è quella di fungere da “pull factor”, ovvero da fattore che spinge i migranti a partire per essere salvati in mare. Tuttavia secondo Forti, «i dati più volte pubblicati anche dalle Nazioni unite dimostrano che anche in assenza di navi delle ong, le persone partono, quindi la loro presenza diminuisce sensibilmente il numero di morti in mare. Questo è il punto. Poi se qualcuno vuole convincerci del contrario, lo deve dimostrare, ma oggi non c’è nessuna base per affermarlo. Rimane il fatto, almeno per quello che ci riguarda, che comunque la vita umana viene prima di tutto».

I numeri parlano chiaro: la maggior parte dei salvataggi avviene per opera della Guardia Costiera. Dall’inizio dell’anno, inoltre, stando ai dati del ministero dell’Interno, circa 90 mila persone sono sbarcate in Italia; tuttavia, pur se non esistono statistiche precise al riguardo, le organizzazioni che si occupano di accoglienza, valutano che più o meno la metà lasciano il nostro paese, poi alcuni tornano indietro.  

Ingressi legali

D’altro canto, rileva ancora il responsabile per le politiche migratorie della Caritas, in questo momento non c’è in Italia una situazione di emergenza rispetto alla capacità di accoglienza. «Il sistema, tutto sommato, in questi anni è riuscito a dare delle risposte grazie anche al terzo settore che chiaramente è l’asse portante della rete di accoglienza; quindi se dovesse sorgere anche su questo aspetto la polemica sarebbe ancor più pretestuosa perché non ci sono gli elementi oggi per dire né che siamo in sofferenza né che chi svolge questa attività lo fa senza coscienza di cercare il meglio per queste persone».

Resta il nodo irrisolto di un’Europa che sull’immigrazione non riesce a fare sistema mentre il grosso della materia resta nelle mani degli stati. «Governare lei migrazioni – osserva Forti – vuol dire innanzitutto promuovere dei canali legali d’ingresso» e uno degli strumenti a nostra disposizione «è quello del decreto flussi: se non si mettono in condizione le imprese di poter assumere persone in maniera regolare non solo si alimenta l’irregolarità nel mondo del lavoro, ma di fatto si inducono tanti migranti a raggiungere il nostro paese in maniera irregolare attraverso i trafficanti; quindi – lo ripetiamo da anni – se si vuole combattere i trafficanti è necessario aprire vie legali sicure di accesso».

Secondo il presidente del Centro Astalli, in Italia ci sono strumenti obsoleti per gestire le migrazioni, meccanismi farraginosi anche per chi cerca lavoro e per le stesse imprese; «la legge Bossi-Fini – rileva padre Ripamonti – risale all'inizio degli anni 2000 e non corrisponde più al fenomeno migratorio cui stiamo assistendo».

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