Cominciamo da una domanda: sapreste identificare chi ha pronunciato questa frase? «La lettera del presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ai capi di stato e di governo Ue è un passo in avanti per far fronte alla crisi energetica. Una sfida europea che come tale deve essere affrontata e che deve vedere gli sforzi di tutti per aiutare famiglie e imprese». Un aiuto, si tratta della stessa persona che, dopo avere vinto in modo netto le elezioni, ha dichiarato: «Se in un dicastero l’alleanza di centrodestra non ha un esponente di livello adeguato, non vedo alcun problema ad affidare a un tecnico quell’incarico».

Con queste prese di posizione e più generalmente con la definizione della sua linea politica, Giorgia Meloni sta conducendo un’operazione complicata. La continuità rivendicata in modo fin troppo esplicito dalla leader di Fratelli d’Italia tra governo politico e governo tecnico, tra sovranismo e spirito comunitario, sembra sorprendente, se non paradossale; merita di essere inquadrata partendo da un’ipotesi.

Scelta tattica

Da qualche mese a questa parte, la leader di Fratelli d’Italia non sembra proporre né una banalizzazione né semplicemente una normalizzazione della sua linea politica – che rimane estremamente conservatrice sulla famiglia, sul rapporto con la patria, con l’identità, in un dialogo con l’estrema destra polacca e spagnola – ma la sua istituzionalizzazione.

Il segreto del suo successo è di essere riuscita a convincere, per il momento con un successo relativo ma reale, alcuni degli elementi che compongono e che regolano “l’ingranaggio del potere”, per usare la formula di Lorenzo Castellani: la tecnocrazia italiana, l’apparato diplomatico e militare della Nato, le élite economiche nazionali e internazionali.

Per descrivere questo nuovo prodotto del laboratorio politico italiano possiamo parlare di “tecno-sovranismo”: sintesi tra l’integrazione di logiche tecnocratiche, l’accettazione del quadro geopolitico dell’Alleanza atlantica e della sua dimensione europea, con l’insistenza su valori iperconservatori e istanze neonazionaliste.

Questo riallineamento ha una dimensione tattica. Grazie al suo vantaggio nei sondaggi, Meloni ha potuto condurre una campagna rivolta meno alla mobilitazione dell’elettorato che alla preparazione del governo, suggerendo un patto: un chiaro allineamento su due assi strutturanti (l’euro e l’Ucraina), in cambio di una maggiore autonomia nel resto delle sue proposte.

Il ruolo della struttura

È grazie a questa operazione che la sua linea, più estrema di quella della Lega, è potuta apparire molto più coerente con il governo della seconda potenza industriale europea. È grazie a questo che ora può proporre una forma di continuità con Mario Draghi o che è riuscita a convincere l’elettorato di centrodestra a votare per lei, scoprendo il punto dolente del centrodestra in Europa, sempre più esposto alla tentazione di una fusione con l’estrema destra.

Questa operazione va compresa in un contesto in cui i margini di manovra sono estremamente limitati: l’Italia sta affrontando una serie di crisi che minacciano di far implodere il suo sistema economico. Inoltre da ormai più di dieci anni il sistema politico si trova in una sorta di interregno che ha visto il deragliamento di figure tanto diverse come Matteo Renzi, Matteo Salvini o Mario Monti senza che apparisse la possibilità dell’apertura di un ciclo di lungo periodo.

Giorgia Meloni sembra aver integrato queste due dimensioni nella definizione della sua linea politica. A differenza di Salvini o del Movimento 5 stelle nel 2017, sembra volere evitare lo scontro frontale. Per poter definire un nuovo ciclo politico bisogna prendere in conto che gli incidenti di percorso saranno numerosi: è meglio essere dotati di airbag. Condividere con gli apparati la responsabilità del governo significa anche potere scaricare il peso delle crisi sulla struttura. Soprattutto, non dare corda alle aspettative di cambiamento radicale suscitate dai leader del decennio populista diminuisce le possibilità di deludere.

Sguardo a est

Al di là di questi aspetti interni che decideranno se Giorgia Meloni sarà in grado di essere all’origine di un nuovo ciclo politico, la dinamica tecno-sovranista va compresa in un processo più ampio. Per questo bisogna guardare verso est. La guerra in Ucraina sta riconfigurando l’Europa intorno a un momento schmittiano: nell’intensità della guerra, un nemico comune emerge. Contrariamente a un’impressione diffusa da alcuni esperti approssimativi, la forza della resistenza ucraina è in gran parte dovuta al fatto che a Kiev stiamo assistendo a un impressionante processo di nation building che mette al centro del dibattito mainstream la questione dell’identità nazionale, dell’appartenenza patriottica allo stato in un’ottica sostanzialmente positiva.

In questo contesto la politica torna a essere scabra, intensa, calda: nello stato di emergenza si rinforzano i valori ultraconservatori e neonazionalisti – oscillando tra l’Europa bianca e cristiana di Viktor Orbán e la Grande Europa potenza civilizzatrice – ed emergono linee di frattura definite in modo brutale.

D’altra parte, si sta affermando un sentimento di appartenenza e di protezione che l’euro è riuscito a suscitare. È la fusione di queste due tendenze a definire l’inerzia del tecno-sovranismo, il cui effetto di contaminazione non va limitato all’azione del governo italiano.

Non è ancora certo che l’operazione tecno-sovranista di Giorgia Meloni riesca nel suo intento, ma la sinistra e in particolare il Pd dovrebbero prendere sul serio questa nuova dimensione: l’adesione ai vincoli e le logiche tecnocratiche non giocano più organicamente a suo favore. Nella riorganizzazione politica che sta aprendo un nuovo ciclo tra la guerra in Ucraina e la pandemia, essere il partito della continuità istituzionale non sarà più sufficiente.

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