Lo scorso 19 dicembre Francesco riceve Maurizio Landini e cinquemila delegati della Cgil, una prima assoluta per la Sala Nervi. I sindacalisti non hanno al collo il fazzoletto di cotonaccio rosso della casa ma un foulard di seta prodotto per l’occasione, con stampate quelle che un tempo sarebbero state considerate le insegne del diavolo e dell’acqua santa: lo stemma del Vaticano e il simbolo del sindacato. In quell’occasione l’agenzia cattolica Adista, di ispirazione progressista, parla di «consonanza» fra il papa e il sindacalista. Da sinistra viene invece usata la parola «convergenza». Nel primo caso è una parola attentamente calibrata, nel secondo molto meno: è «convergencia» la coalizione «social» del Cile di Gabriel Boric, sono «convergencias» le alleanze della sinistra radicale spagnola. L’austero Osservatore Romano fa insieme un po’ meno e un po’ di più: riferisce ufficialmente di un «appello» del papa alla Cgil.

In realtà un nome condiviso della “cosa” non c’è, ed è la ragione per cui la “cosa” non ha ancora fatto tremare la politica italiana, che pure sta drizzando proprio in questi giorni le sue vecchie sgangherate antenne fuori corso. La “cosa”, diciamo così per ora, è la profonda sintonia che in quest’ultimo anno è stata registrata dai sismografi fra papa Francesco, il segretario della Cgil, ma anche il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale, e infine Andrea Riccardi, fondatore della comunità Sant’Egidio. Quattro uomini a capo di altrettante ampie divisioni: due religiosi, per meglio dire i massimi vertici del cattolicesimo mondiale; e due laici, il capo di un esercito con cinque milioni di iscritti e il fondatore di un movimento internazionale, una potenza geopolitica presente in settanta paesi di tutti i continenti.

Il poker d’assi è il riferimento in Italia di una vasta insorgenza pacifista, che in quest’anno di guerra della Russia contro l’Ucraina più che essere cresciuta ha fatto di meglio: ha accumulato forza, ha stretto bulloni fra un’associazione e l’altra delle seicento riunite nel cartello Europeforpeace, camminando insieme alla Santa Sede bergogliana, alla Conferenza episcopale, alla sinistra senza partito. Una confluenza sociale inedita. Un ufo, un oggetto non identificato, almeno alle nostre latitudini.

Perché se invece si prendono a prestito le esperienze latinoamericane, quelle da cui proviene papa Bergoglio, l’impasto degli elementi «pane e pace», o anche le tre “T” dei primi discorsi in cui il papa si è rivolto ai movimenti popolari e ai «dannati della terra», a Roma e in Sud America, – «tierra, techo, trabajo» (terra, casa e lavoro) – un nome ce l’ha, e già circola per vie interne, ed è il lulismo cristiano-sindacale.

Agenda pace e pane

È un ufo però solo per i distratti. Sfugge dai radar perché si tratta di una «forza silenziosa» secondo Mario Giro di Sant’Egidio. Di un movimento carsico le cui «emergenze» sulla scena pubblica sono però state chiare. E ogni volta più forti.

Il 5 novembre 2022, sul palco della sterminata manifestazione per la pace di Roma, in piazza San Giovanni, parlano da leader fianco a fianco Riccardi e Landini. I loro interventi sono preceduti da una lettera ai manifestanti inviata dal cardinale Zuppi.

Prima di quel giorno Sant’Egidio aveva organizzato un grande evento sulla «pace possibile» con il presidente italiano Sergio Mattarella e il presidente francese Emmanuel Macron. Dopo quel giorno, il 19 dicembre, c’è l’udienza del papa a Landini, che è già in pieno congresso per la seconda conferma a segretario Cgil con l’esercito dei suoi delegati che si sbraccia per toccare la mano al pontefice. Il sindacalista parla per primo, «Santità», è emozionatissimo, «è stato per noi importante vedere insieme le bandiere rosse della Cgil e quelle di tante associazioni cattoliche. Quella bellissima giornata ha reso evidente l’impegno comune e il percorso che possiamo fare insieme – laici e cattolici – per cambiare una società fondata sulla competizione, l’egoismo, lo sfruttamento, le tante forme di solitudine, per affermare, invece, il valore dell’eguaglianza, della differenza di genere, della fratellanza e del riconoscimento delle diversità quale fondamento dell’eguaglianza stessa. Come lei ha detto “oggi abbiamo bisogno di costituirci in un ‘noi’ che abita la Casa comune”».

Santità risponde prima con una battuta: «Bravo quel ragazzo, eh?», ovazione, poi con un riconoscimento, «non c’è sindacato senza lavoratori e non ci sono lavoratori liberi senza sindacato», infine con un mandato, «il sindacato è voce di chi non ha voce, voi dovete fare rumore», «la gente ha sete di pace, educare alla pace anche nei luoghi di lavoro può diventare segno di speranza per tutti».

Il primo gennaio 2023 Sant’Egidio convoca il suo tradizionale appuntamento «Pace in tutte le terre» che confluisce in piazza San Pietro per l’Angelus. Lo stesso giorno, Landini e Zuppi, il cardinale che frequenta i congressi dell’Anpi e della Fiom («Siamo una comunità di destino», dirà ai metalmeccanici dell’Emilia-Romagna) sono insieme sul palco per la pace di Bologna, insieme a preti missionari, rappresentanti islamici, ebrei, ortodossi e protestanti e delle donne iraniane.

Il 7 gennaio, la tappa veronese: in uno stracolmo Auditorium della Gran Guardia stavolta parlano Riccardi e Landini, c’è il sindaco Damiano Tommasi, che ha sconfitto la destra con la sua alleanza civica, e il vescovo Domenico Pompili; e ancora Rossella Miccio di Emergency e Vanessa Pallucchi, portavoce del terzo settore.

In questo calendario debbono essere annotati anche gli impegni istituzionali del cardinale Zuppi, che sono l’occasione per tracciare la traiettoria della “nuova” Cei. Il 23 gennaio, pochi giorni fa, l’arcivescovo di Bologna apre a Roma il Consiglio permanente con un discorso diretto alla politica e al governo. Ancora pace, pane, e Costituzione. La Chiesa, dice, «continua a parlare e non tacere» per fare emergere il «popolo di Dio nascosto» che già c’è in Italia, più numeroso di quello che si può misurare «con categorie vecchie».

I prossimi appuntamenti ce li facciamo raccontare dai leader delle associazioni pacifiste. Che sono l’avanguardia di quel «popolo» silenzioso che si prepara in questi giorni a tornare in piazza per chiedere la fine della guerra russo-ucraina, in senso disarmista. Secondo i sondaggi, da sempre interpreta il sentimento della maggioranza degli italiani. In parlamento però i loro rappresentanti freschi di elezione hanno votato quasi al completo il sì al sesto decreto, con l’eccezione del movimento Cinque stelle, di un pugno di dem e di rossoverdi, con qualche curiosa defezione. Ma sulla politica - che alle consuete risse ha aggiunto la più demenziale di tutte, quella su un intervento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky al festival di Sanremo – torneremo più avanti.

Pacificatori o pacifinti

Ai primi due cortei nazionali per la pace dell’anno scorso, il 5 marzo e il 5 novembre, la polemica contro i pacifisti è stata durissima. Disarmisti e nonviolenti vengono accusati di essere filoputiniani e di pretendere la resa dell’Ucraina. I pacifisti si difendono come possono sui media, per lo più senza successo apparente.

Oggi invece, all’ennesima zuffa sul voto delle camere sul decreto armi, lo scorso 25 gennaio, di fronte al solito rosario di accuse si è registrato un insolito disimpegno da parte degli accusati di diserzione dal fronte della resistenza ucraina. A guardare meglio, potrebbe trattarsi persino di un conquistato disinteresse. Come se la frattura con la politica («il partito unico delle armi», nella definizione più radicale) si fosse ormai consumata. E fosse stata digerita, metabolizzata. Acqua passata.

In occasione di un anno di guerra, i pacifisti preparano le loro mobilitazioni. Sul sito di Europeforpeace e di Sbilanciamoci si legge la convocazione per il fine settimana fra il 24 e il 26 febbraio, in coincidenza con la data dell’inizio dell’invasione: «Siamo un’alleanza di organizzazioni della società civile», recita l’appello, «Invitiamo tutte le persone che vogliono schierarsi contro la guerra e contro il riarmo ad attivarsi per una tregua e negoziati di pace». Si annunciano presidi in un centinaio di città italiane.

La convergenza

«Un’area sociale sta convergendo», spiega Francesco Vignarca, della Rete italiana pace e disarmo, «e questo è stato possibile perché le seicento associazioni che hanno aderito a Europeforpeace hanno potuto contare sul nucleo di base della Rete, che ha fatto da pivot. Già comprendeva le grandi associazioni come Arci, Acli, Cgil, Libera, Legambiente, Pax Christi. Sono confluite Sant’Egidio, Emergency, l’Anpi. Ed è in corso un salto di maturità da parte di tutti. Ciascuna realtà, laica o cattolica, mantiene le sue iniziative a fianco di quelle comuni, ma è sempre più chiaro che si va tutti nella stessa direzione. L’unione fa la forza, ma soprattutto dà una prospettiva diversa che è quella che ci piace chiamare la nostra “proposta sistemica”. Insomma non siamo più percepiti come “i pacifisti settoriali”, proponiamo un modello di società cooperativa, che ripensa la sicurezza comune e combatte per il clima. Proponiamo la trasformazione nonviolenta del pianeta. La richiesta di pace fra Ucraina e Russia è stato il reagente che ha consentito, per la prima volta da tempo, una vera reazione».

«Io ho frequentato tante manifestazioni pacifiste, ma stavolta c’è qualcosa di diverso», ragiona Giulio Marcon, di Sbilanciamoci. «È in corso una convergenza inedita. Basta guardare al dialogo fra Landini e il papa, o la sintonia con Riccardi. Sulla guerra. Ma non è solo sulla guerra». E i partiti della sinistra che fanno? Marcon è stato parlamentare di Sel e conosce bene le mosse dei partiti che provano a cavalcare i movimenti a caccia di voti. E non ha dubbi: «Stavolta la politica è fuori. Anzi tutto sta funzionando proprio perché la politica è rimasta fuori». Ma è davvero così?

Il nuovo Conte verde

La politica c’entra. Ne è convinto Paolo Mieli, storico ed editorialista del Corriere della sera, occhiuto osservatore della sinistra fin nei suoi più stanchi bradisismi. L’occasione è il no alle armi all’Ucraina espresso alla camera da Paolo Ciani, di Sant’Egidio, eletto da indipendente nelle liste Pd. Hanno votato no anche i Cinque stelle. Non hanno votato il decreto Arturo Scotto e Nico Stumpo di Art.1, né il verde Angelo Bonelli e la dem Laura Boldrini. Mieli ai microfoni di Radio24 riflette sulla geografia politica dei «recalcitranti alle armi all’Ucraina» e unisce i puntini: Ciani, i «dalemiani di Art.1», i grillini. Attenzione, c’è un «nucleo d’acciaio», dice, «guidato da eminenze grigie che non sono in parlamento, sono quelli che vengono da Art.1, poi ci sono quelli di Sant’Egidio, comanderanno su Conte e sulla sinistra italiana». Ironia per cultori, «nucleo d’acciao» è un’espressione marxista-leninista.

È vero che dopo in parlamento c’è chi prepara la nascita di un intergruppo dei pacifisti di sinistra. Ed è anche vero che Giuseppe Conte, con un occhio ai sondaggi, ha tentato a suo tempo un’opa sui nonviolenti, ribaltando il suo primo sì alle armi e anticipando sui media il lancio del corteo del 5 novembre. Ha persino vagheggiato un’operazione di entrismo nel congresso Arci nei giorni precedenti quel corteo. Ma è stato respinto con perdite: i pacifisti gli hanno chiesto, cortesi ma inflessibili, di farsi da parte e di non provare a mettere il cappello sulla manifestazione; a cui comunque poi parteciperà facendosi fotografare in un affettuoso abbraccio con Landini; mentre Enrico Letta, dolorosamente presente e sfilante, prendeva i fischi. Risultato: i Cinque stelle stavolta hanno votato no ma hanno evitato di proclamarsi rappresentanti politici dei disarmisti.

Anche e soprattutto perché in questa fase Conte tratta con i verdi di Bruxelles per trovare una casa nel parlamento europeo ai quei senzatetto dei suoi. E i Verdi tedeschi sulla guerra sono allineati con la Nato: nei sondaggi di Politbarometer che settimanalmente vengono diffusi da tutte le tv tedesche, venerdì scorso i Grunen risultavano il partito più favorevole all’invio dei panzer all’Ucraina.

Poker di leader

«La vera novità del 5 novembre è stata la saldatura tra mondo sindacale, cattolico, pacifista e ambientalista, con un contributo civico», spiega Giro. «Un mix che sta facendo da crogiolo a una nuova cultura della pace, del lavoro e dell'ambiente. Presto anche a Barcellona vi sarà una manifestazione nazionale simile a quella di Roma. L’ambizione è moltiplicare questo modello in tutta Italia e in Europa, facendo emergere una forza di pace nella società civile a dimensione popolare. E liberare il tema della pace dalle pastoie delle polemiche, per rifondare una sensibilità pubblica sul valore della pace e della convivenza». Il popolo di «pace e pane», che pratica spontaneamente il lulismo cristiano-sindacale, non può investire su un ruolo direttamente politico di Maurizio Landini, impegnato nei congressi Cgil e che a marzo sarà confermato segretario generale per i prossimi tre anni.

«Non si parte dalla politica per capire questo movimento», insiste Giro, «si tratta di qualcosa di più profondo che incontra un bisogno che esiste dentro la società». La sinistra occidentale tutta è messa male, è il ragionamento, il filo rosso fra Francesco, Riccardi, Zuppi e Landini è, anche, una risposta alla crisi del Pd. Vi si aggrega tutto il mondo pacifista, cattolico e laico. Quanto ai cattolici, spiega, «si sono stufati del bellicismo, e all’accusa di filoputinismo non crede più nessuno. La Chiesa è da sempre contro la guerra, ora è preoccupata per la sua riabilitazione e per la possibilità di conflitto atomico. Sta togliendo la religione dalla trappola dell’odio nazionalista e religioso. L’enciclica Pacem in terris è dell’epoca in cui papa Giovanni XXIII riceve Aleksej Adjubei e sua moglie, Rada Krusciova, mandati dal suocero Nikita Krusciov (1963, ndr): si può tentare di parlare con tutti. E andando indietro, papa Benedetto XV fa un appello contro “l’inutile strage” della Prima guerra mondiale (1917, ndr). Si vuole definire questo di oggi un lulismo cristiano-sociale? È un movimento che difende la democrazia che viene attaccata dal nazionalismo e dalle guerre, un movimento silenzioso, ma che ha l’ambizione di cambiare tutto».

C’è un leader? Per ora ce ne sono almeno quattro. Troppa grazia. Ma ciascuno fa la sua parte: chi si occupa delle anime, chi dei lavoratori. Intanto a Landini il papa ha chiesto di «fare rumore». In una santa alleanza c’è una sacrosanta distribuzione di compiti.

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