La storia del formaggio Parmigiano-Reggiano è apparentemente una delle più semplici e delle più lineari; una vera e propria vacanza per lo storico dell’alimentazione, che si trova ad avere a disposizione documenti e testimonianze che coprono circa ottocento anni. Ma le apparenze possono ingannare, come spesso accade e anche questa volta fermarsi alla prima impressione potrebbe rivelarsi pericoloso. La più importante, se non la prima, citazione del formaggio Parmigiano è quella fatta da Giovanni Boccaccio con la famosa descrizione del mitico paese di Bengodi: «In una contrada che si chiamava Bengodi (…) eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva». Come si può vedere, già intorno alla metà del Trecento il Parmigiano si consumava esattamente come oggi: grattugiato per insaporire la pasta.

Oltre cento anni dopo, Pantaleone da Confienza dà alle stampe un fondamentale trattato sul latte e sui suoi derivati: Summa lacticiniorum, sive Tractatus varii de butyro, de caseorum variarum gentium differentia et facultate (1477). Anche qui il Parmigiano viene citato ed elogiato per la sua qualità, ma l’esperto Pantaleone ci fornisce alcune informazioni che sembrano indicare una realtà completamente diversa per quanto riguarda l’uso e la produzione.

Non solo Parma

Innanzitutto, ci dice che questo formaggio non è un’esclusiva della zona di Parma, anzi, a ben guardare il nome “Parmigiano” sembra quasi usurpato: «I formaggi piacentini da alcuni sono chiamati parmigiani, perché anche a Parma se ne producono di simili, non molto diversi per qualità. Così anche nel territorio di Milano, Pavia, Novara, Vercelli (…); ma a dire il vero i piacentini superano gli altri in bontà».

Insomma, si sta parlando di grana, senza andare tanto per il sottile. E poi c’è la questione dell’uso di grattugiarlo sulla pasta, perché tutto fa pensare che il consumo di quest’ultima sia in forte declino e di conseguenza non c’è più tutta questa necessità di avere un formaggio magro e secco.

Sembra proprio che il Piacentino o il Parmigiano, se si preferisce, stia diventando via via più morbido e grasso. A questo punto ci si mette anche l’umanista e scrittore Giulio Landi a complicare le cose; nel 1542 scrive un’opera buffa intitolata La formaggiata dove spiega che «a Roma dicesi formaggio parmeggiano e in Francia melanese, ma viene da Piacenza».

Rimane il nome, ma scompare il prodotto

La questione del nome si trascinerà per un bel pezzo, ma ormai c’è un problema ben più profondo: detta in due parole, dalla fine del XVII secolo a Parma il formaggio non si produce più. Addirittura, i pochi dati statistici che abbiamo nel periodo 1680-1850 ci dicono che nella provincia di Parma non ci sono più le vacche da latte.

Eppure, come si diceva, il nome Parmigiano sopravvive seppur con alterne fortune, tanto che, quando Napoleone arriva in Italia, nel 1796, spedisce a Parma uno dei suoi migliori scienziati, Gaspard Monge, per studiare le tecniche di fabbricazione di quello che lui pensava essere il formaggio tipico di quella città, noto per la sua longa conservazione.

Poche settimane dopo il suo arrivo nella città ducale, Monge scrive a Napoleone una lettera per comunicargli che a Parma questo formaggio non esiste, ma lo informa anche che qualche commerciante locale gli avrebbe indicato Lodi come luogo di produzione; decide per tanto di recarsi nella vicina città lombarda. E così, il 22 ottobre del 1799 Gaspard Monge, può mandare una dettagliata descrizione delle tecniche di produzione «de le fromage Lodézan, dit aussi Parmézan».

Ancora nel 1855, nella famosa guida Baedeker dedicata all’Italia, parlando di Parma, si afferma che «l’apprezzato formaggio parmigiano, qui chiamato grana, porta il suo nome ingiustamente, poiché viene prodotto in Lombardia».

La rinascita

Nel frattempo, però, qualcosa sta succedendo: l’agricoltura delle provincie di Parma, Reggio Emilia e Mantova sta conoscendo una importante evoluzione, con la nascita delle prime cooperative e la diffusione delle cattedre ambulanti, che istruiscono i contadini sulle nuove tecniche di coltivazione e allevamento, ritornano le vacche da latte e quindi la produzione del formaggio.

Certo, bisognerà attendere l’inizio del XX secolo per raggiungere i livelli quantitativi e qualitativi delle province di Lodi e Piacenza, ma ormai la strada è tracciata.

Resta da capire perché, nonostante un buco di quasi duecento anni, il nome “Parmigiano” sia sopravvissuto. Ma proprio quell’aggettivo, che indica ciò che viene dalla città e non dalla provincia, forse ci offre un indizio. Perché come è ovvio, le mucche si allevano in campagna e i caseifici di città non sono mai esistiti.

Quindi, come spesso accade, il nome indica il luogo di partenza del formaggio, non il luogo di produzione: la via Emilia e successivamente la linea ferroviaria Milano-Bologna fecero di Parma il centro di stoccaggio, smistamento e spedizione di un prodotto che veniva realizzato in un’area estremamente ampia e indefinita, ma che di certo non aveva il Parmense come fulcro centrale.

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