Nella prima giornata della verifica-lampo, voluta dal premier Giuseppe Conte con la sua maggioranza le parole «crisi» e «rimpasto» sono bandite. Quando, dopo quasi tre ore di confronto, da palazzo Chigi esce la prima delegazione, quella dei Cinque stelle, il reggente Vito Crimi seppellisce la questione: il rimpasto è un tema «surreale», dice, da parte del M5s «non c’è nessuna disponibilità». Con lui, oltre ai ministri Alfondo Bonafede e Stefano Patuanelli e ai capigruppo delle camere Davide Crippa e Ettore Licheri, c’è anche il ministro Luigi Di Maio, che in una riunione interna del movimento il 4 dicembre si era fatto scappare che il «Conte ter» era possibile. Invece no, e lo pensa anche il Pd.

Un dem di rango taglia corto già prima della consultazione del suo partito, rispolverando una canzone di Sergio Endrigo: «La verifica appena cominciata è già finita». Non si parla di rimpasto neanche quando, alle sette e trenta, a Palazzo entra il pattuglione che arriva in gran parte dalla vicina sede del Nazareno. C’è il segretario Nicola Zingaretti, il suo vice Andrea Orlando con Cecilia D’Elia (i due rappresentanti al tavolo del programma), il capodelegazione e ministro Dario Franceschini, i due capigruppo Andrea Marcucci e Graziano Delrio, quest’ultimo in videocollegamento. Oggi alle 13, sarà il turno di Italia viva, alle 19 Leu. Conte, con insolita reattività, apre dunque la sua verifica mentre la camera è in piena sessione di bilancio e al senato balla il decreto sicurezza che la presidente Elisabetta Casellati ha voluto affidare alla discussione di due commissioni, una delle quali presieduta dalla Lega. Intanto il governo è attraversato dai conflitti sulle nuove strette anti-Covid: la terza ondata è all’orizzonte, in alcune regioni – come il Lazio – mettono in forse le riaperture delle scuole.

Insomma, la navigazione della maggioranza non è affatto tranquilla. Ma Renzi è rimasto solo e le sue richieste – e le sue minacce - si sono ridimensionate. Del resto il blitz con cui Conte voleva imporre la task force per il Recovery fund è già stato sventato. Ora Renzi avverte: «Nessuno si illuda che mi basterà un contentino». Nel week end un gruppetto di parlamentari di Italia viva ha spiegato al suo leader che, sebbene considerino certo che il voto sia la cosa più sgradita al Colle, non è il caso di rischiare una «crisi al buio». Ettore Rosato la dice così: «Noi poniamo questioni di metodo e di sostanza. L’obiettivo non è far uscire Conte ma lavorare seriamente sul Recovery». Maria Elena Boschi, capogruppo a Montecitorio, anticipa che oggi dirà a Conte «che non potrà essere un uomo solo a decidere». Ma i toni infuocati della settimana scorsa sono già evaporati. Per il rimpasto resta giusto un’ipotesi, fantasiosa: secondo la quale il presidente della Camera Roberto Fico accetti di correre da sindaco di Napoli, lasciando libera la sua casella cui ambirebbe Franceschini, che a sua volta lascerebbe il ministero dei Beni culturali. Ma Fico non ci pensa, e tutto al momento resterebbe com’è.

Le priorità del Pd

Quando Zingaretti esce da Palazzo Chigi dice quasi le stesse parole di Crimi: di rimpasto «non abbiamo parlato», ma nel confronto sono stati messi «sul tappeto i temi e i nodi per un rilancio dell’azione di governo: dai temi dell’agenda sociale, del lavoro, del rilancio delle imprese, anche la grande questione della sanità, in uno spirito per quanto ci riguarda molto costruttivo». 

Del resto Pd nega di volere il rimpasto e esibisce un gran lavoro sul Recovery fund. Ieri, prima di andare a palazzo Chigi, Zingaretti ha riunito in videconferenza i suoi ministri, i gruppi parlamentari, i presidenti regione e i sindaci per un seminario sul Next generation Ue. I ministri dell’Economia Roberto Gualtieri e degli Affari europei Enzo Amendola hanno spiegato ai colleghi i tempi e i modi per attivare il piano di rinascita del paese. Oggi altro seminario: sulle «risorse per lo sviluppo e la coesione dell’Italia». Stavolta l’introduzione sarà del ministro per il Sud Peppe Provenzano, al segretario le conclusioni. Insomma, il Pd lavora “nel merito”. E «non chiede alcun rimpasto», frase che viene sottolineata la sera a palazzo Chigi. Del resto, durante l’assemblea di Confindustria, Amendola spiega che «la governance non è una invenzione italiana. Nelle linee guida europee la commissione chiede a ogni paese di mettere in campo delle unità di missione o task force», e quella che il consiglio dei ministri varerà non sarà un “governo parallelo” ma una struttura «per fare in modo che la pubblica amministrazione segua dei processi di semplificazione forte», a cui lavoreranno «insieme» tutti i ministeri, le regioni e i comuni in vista della presentazione del piano ufficiale, a febbraio. A Palazzo Chigi però il Pd però chiede anche a Conte di smuovere la palude dei tavoli di maggioranza, quello sul programma e soprattutto quello delle riforme. I dem chiedono che riprenda il confronto sulla legge elettorale, promessa per subito dopo il voto del referendum e rimasta al palo. Ma per farlo Conte deve piegare la resistenza di Italia viva, che vuole il maggioritario. Dunque si torna alla casella di partenza.

Alla fine la nuova task force «condivisa» sarà, con ogni probabilità, il topolino partorito dalla montagna di critiche rivolte al premier dalla parte sinistra della maggioranza. Tranne Leu, prudentemente rimasta a difesa del governo. «C’è qualcuno che sta giocando una partita a carte, bisognerà vedere come se la giocherà, le esperienze precedenti non depongono a favore. Però è una partita a carte che si gioca sul paese, in un momento delicato», avverte Nicola Fratoianni su Raitre. Neanche lo smacco dei clamorosi soli 9 miliardi destinati alla sanità in tempo di Covid è valsa a una protesta percettibile del ministro della salute Roberto Speranza.

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