Con l’attuale fase politica la materia per la satira e la parodia si sta accumulando a iosa. Tutta la retorica sul Mes sanitario o sulla partecipazione del parlamento alla stesura del Pnrr (richieste che hanno fatto cadere il Conte II e sembravano irrevocabili) si è sciolta come neve al sole. Nessuno si strappa più le vesti pretendendo revisioni anche perché non c’è più chi ha il potere di ricatto. Il vero vantaggio del governo Draghi è proprio questo: nessuno può farlo cadere da solo. Ci si dovrebbe mettere d’accordo tra forze diverse ma questo non accadrà. Con l’opposizione ridotta alla solitaria Giorgia Meloni, il parlamento non conta quasi nulla. Di conseguenza niente battaglie campali in aula ma soltanto una guerriglia continua sui media per ottenere qualcosa o erodere il governo, puntando alle elezioni a venire.

È la ragione per la quale il premier rinvia il consiglio dei ministri lasciando sfogare i leader sulla stampa, per fare qualcosa di molto più importante: mettersi d’accordo sul Pnrr con Bruxelles, forte della sua reputazione che intanto ci ha fatto regalare un outlook stabile da Standard & Poor’s.  Solo Draghi ha il potere di convincere gli occhiuti eurocrati, con buona pace della politica.

Il centrosinistra

Tra i partiti è la fiera delle debolezze. Da una parte il M5s è insabbiato in una crisi interna che viene dai due precedenti governi, dalla rottura con Davide Casaleggio, dalle intemerate di Beppe Grillo ma soprattutto dall’indecisione di Giuseppe Conte che non ha ancora deciso da che parte prenderlo. Di conseguenza i grillini non riescono ad assicurare al Pd – l’unico alleato possibile –  nessuna garanzia seria sulle importanti elezioni comunali a venire. Questo mette i democratici in una situazione delicata: non solo è impossibile decidere un’alleanza strategica ma non si riesce nemmeno a imbastire convergenze tattiche caso per caso. Se il Movimento dovesse alla fine dividersi, il quadro cambierebbe in senso decisamente sfavorevole al centrosinistra (su questo punta Renzi).

Il centrodestra

Dal canto suo Matteo Salvini ha fatto definitivamente capire quanto non abbia apprezzato di essere stato “forzato” dentro l’attuale governo né la scelta dei ministri della Lega, avvenuta suo malgrado. Di conseguenza continuerà con le provocazioni dall’esterno che potrebbero corrodere la fiducia in Mario Draghi, fargli perdere la spinta propulsiva e metterlo in serio imbarazzo con i suoi estimatori internazionali. L’analisi scettica sull’ultimo numero dell’Economist è un primo segnale in tale direzione.

La scena politica è minata da una quantità smisurata di delusi: ci sono le vedove del Conte I e quelle del Conte II, ma anche le vedove dell’alleanza di centrodestra (ormai difficile da ricostruire, vedi la lite sul Copasir) e addirittura i nostalgici della fase pre Cinque stelle (coloro che vorrebbero far finta che non esistono), senza contare l’ampia categoria dei post/proto/ex renziani. Una frammentazione che non facilita il compito di chi persiste nella ricerca di iniziative unitive, soprattutto nel centrosinistra.

Entrambi i protagonisti del governo gialloverde sono molto indeboliti rispetto a due anni fa senza che paradossalmente nessuno se ne sia avvantaggiato, a parte Fratelli d’Italia, posta fuori dal gioco delle alleanze. In tale rivalità tra debolezze, la maggioranza si tiene insieme non tanto per scelta ma per paura: nessuno sa che cosa verrà davvero fuori dalle urne previste per il 2023. Nemmeno la Lega è più certa della propria vittoria e l’esperienza del Conte I l’ha certamente scottata (e internamente incrinata).

La sfida di Letta

L’attuale momento politico lascerebbe alcuni spazi al Pd, in particolare a Enrico Letta da poco eletto segretario e libero da condizionamenti. Tuttavia (come si vede a Bologna e a Torino) le correnti non demordono, lasciando il segretario a chiedersi se sia meglio imporre la propria visione o accettare che le correnti si prendano tutta la responsabilità delle elezioni a Roma, Napoli, Torino e Bologna. L’assurdo di tale situazione è che i partiti minori della coalizione (Italia viva, +Europa, Azione ecc.) giocano di sponda con le correnti più che parlare con Letta. È questo il vero limite delle correnti attuali: spesso non si tratta di tendenze interne al Pd che arricchiscono il dibattito, ma di fazioni che giocano di sponda “fuori” dal partito, con soggetti esterni. Tale loro autonomia rende il partito nazionale ingovernabile. Ecco cosa spiega lo sfogo di Nicola Zingaretti e quanto sia ardua la sfida di Letta.

Così a Bologna Italia viva chiede le primarie e propone una candidata che prontamente riceve l’endorsement correntizio del Pd, prima di ogni confronto interno al partito. A Torino addirittura una corrente del Pd tenta di scardinare l’orientamento delle segreterie regionale e cittadina, manipolando una parte del civismo perché apra ad Azione e Italia viva (in funzione anti Cinque Stelle) e sposti l’asse del centrosinistra più a destra (come dimostrano anche i fatti di Cuneo dove Enrico Costa, l’unico deputato di Azione, spinge la coalizione nella medesima direzione). Anche a Napoli la presentazione di Antonio Bassolino a candidato indipendente è sommessamente sostenuta da correnti del Pd, mentre il partito nazionale sta ancora discutendo con i grillini sulla possibilità di una discesa in campo del presidente della Camera Roberto Fico o di un accordo sull’ex ministro Gaetano Manfredi.

Per chi interloquisce con il maggiore partito del centrosinistra diventa molto difficile sapere come muoversi e a chi dare retta, dal momento che ci sono almeno tre livelli di cui tener conto: quello nazionale, quello parlamentare e quello locale, tutti estremamente dialettici tra loro. Ma non basta soffermarsi sulle responsabilità del Pd: anche i partiti minori sono corrosi dal correntismo come si è visto nell’implosione di +Europa o nella disputa interna a Europa Verde che ha fatto (per ora) arenare l’intelligente offerta di Beppe Sala a Milano. Il fazionalismo è una malattia generalizzata che rende la politica poco leggibile al grande pubblico e troppo volubile perché concentrata attorno ai duelli tra leader di ogni calibro.

Il civismo

D’altra parte tutto questo si capisce perché è nello spirito del tempo: le autonomie dei soggetti (istituzionali, politici e sociali) non servono a fare meglio le cose, non seguono il principio di sussidiarietà né arricchiscono lo scenario. Sono invece il risultato della decomposizione dovuta alla disintermediazione e ai suoi effetti boomerang che hanno prodotto un “mondo liquido”, come dice Baumann. In poche parole: si scatenano tanti “io” urlanti per cancellare ogni possibile “noi” (ogni “io” pretende di essere autosufficiente e comprensivo di tutti). Così le regioni spesso non aiutano ma sabotano la governance, come si è visto, facendone pagare il prezzo alla gente. Allo stesso modo le correnti politiche sgretolano i partiti, quasi trasformandosi in partiti surrettizi ma senza assumersene la responsabilità. Anche nella società civile non va meglio: le reti si disgregano in favore di interessi corporativi e localisti a tutti i livelli. La manipolazione del civismo va nella stessa direzione. Siamo tutti presi dalla patologia della frantumazione, nessuno escluso.

La società liquida ha cambiato il modo stesso di far politica. Di conseguenza oggi è più difficile affermare una qualsiasi egemonia culturale su un magma che pare non reagire a nessuno stimolo. È finita l’epoca in cui i partiti potevano immergersi nelle masse popolari per cercare di conquistarle, intercettando i movimenti sociali profondi e confrontandosi con essi. Oggi quei movimenti non ci sono più e ogni azione riformatrice sguscia via, scivolando su un corpo sociale divenuto viscido.

Per ricreare soggetti politici che sappiano comporre assieme visioni e interessi, occorre accettare con modestia di ripartire dalla creazione di reti umane che si confrontino con i problemi reali e non con sensazioni, emozioni o contrapposizioni ideologiche. Si tratta di un lavoro faticoso ma è il solo che permette di resistere allo sfaldamento e al dilagare delle fake news. Abbandonando ogni velleità di leaderismo, che è solo un’apparente scorciatoia (in Italia rottamiamo leader a una velocità impressionante), i partiti dovrebbero chiedere ai loro ceti locali e a tutti i militanti di cimentarsi con tale gravoso impegno, per riconnettere interessi e visione. Offrirci un linguaggio di verità sulle cose sarebbe già un grande passo in avanti.

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