È straordinario come in tutto il diluvio di commenti che si è abbattuto sul Pd si trascurino i numeri. Valgono solo le aspettative: in questo caso, frustrate. La delusione per un mancato avanzamento è palpabile ma dovrebbe pur essere calibrata con i dati di fatto. Ricordiamoli, quindi, i numeri, partendo dall’inizio.

Nel 2008 il Pd ha ottenuto una percentuale superiore al 33 per cento alla Camera, non sufficiente per vincere la sfida con la destra unita. E il segretario Walter Veltroni è stato messo sulla graticola tanto da dimettersi dopo pochi mesi. Nel 2013 il Pd è sceso al 25,5 per cento. Il crollo è stato drammatico e nemmeno il fatto di disporre, grazie al sistema elettorale, di ben 297 seggi e della maggioranza assoluta a Montecitorio insieme ai piccoli alleati, ha attenuato lo shock. Che è diventato devastante grazie ai famosi 101 franchi tiratori contro Romano Prodi nelle votazioni per la presidenza della Repubblica. Tuttavia, il pacchetto di seggi c’era e, dopo i primi mesi di coabitazione forzata con Silvio Berlusconi, il Pd ha governato praticamente da solo per tutta la legislatura.

Matteo Renzi, il nuovo segretario eletto nel dicembre  2013, è stato il dominus del partito ed è stato per gran parte della legislatura anche a palazzo Chigi. Alle elezioni del 2018 il Pd ha perso altri sette punti precipitando al 18,8 per cento. Un’altra gravissima sconfitta, ben peggiore di quella di 5 anni prima. Ma allora nessuno ha chiesto di chiudere/rifondare il partito. Chissà perché tanta indulgenza. Non era già tempo di scoprire che l’amalgama tra ex democristiani ed ex comunisti non era riuscito, come invece oggi si dice?

Calma e misura

Invece, quando lo scorso 25 settembre il Pd per la prima volta dal 2013 non ha perso, anzi ha guadagnato un paio di decimali, si è scatena l’inferno. Per questo risultato potrebbero essere messe sul banco degli imputati la politica del partito negli ultimi mesi, magari eccessivamente appiattita sul governo, o una disastrosa campagna elettorale, o l’incapacità di fare alleanze.

Invece il problema, da politico, è diventato esistenziale. Come se il Pd fosse allo sfascio mentre, quantomeno a livello locale, era in piena ripresa: nel 2021 aveva vinto in 15 comuni capoluogo su 20, successo confermato nel 2022 compresa la conquista di feudi della destra come Verona e Grosseto.

Tutto da rifare, come avrebbe detto il grande Gino Bartali? No, ha ragione un vecchio routier della politica come Pier Ferdinando Casini, approdato alle sponde del Pd, a invocare calma e misura. La crisi di nervi che ha attraversato la dirigenza del partito si supera nel confronto sul cosa fare, non sul «chi siamo». Perché se si torna a questo, al tormentone della Palombella rossa di Nanni Moretti, e il Pd non ha ancora acquisito coscienza di rappresentare la socialdemocrazia europea in Italia, allora meglio chiudere bottega. Consegnando così il paese a un regime di destra per i prossimi lustri.  

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