Ogni paese europeo ha il suo stile nell’interpretare la democrazia, parlamentare o presidenziale che sia. Ci sono paesi abituati alle coalizioni anche di minoranza (i nordici, i Paesi Bassi, il Belgio); altri alle alternanze (Gran Bretagna, Francia); altri a metà strada fra i due (la Germania ha avuto grandi coalizioni ma anche alternanze tra SPd e Cdu) come l’Italia.

Il nostro paese ha avuto una fase – la prima repubblica – in cui l’alternanza era impossibile (il fattore K); e un’altra in cui ha prevalso una forma di alternanza fragile che ha costretto a vari governi tecnici.

Questi ultimi sono stati il risultato della difficoltà a comporre maggioranze politiche prima ancora che delle difficoltà economiche. L’Italia ha anche un altro problema: i cittadini percepiscono che nell’offerta politica non esistono una destra o una sinistra “normali”.

Le anomalie

Le anomalie storiche sono due: la lunga presenza del più forte partito comunista d’occidente e l’assenza di un partito liberale a destra, mai più rinato dopo essere stato cancellato dal fascismo. Non avendo avuto una sinistra socialdemocratica (malgrado i tentativi di Bettino Craxi), né una destra conservatrice liberale, dopo la fine della Dc ci siamo barcamenati fra due incompiuti: una destra liberale solo a parole, piuttosto statalista o secessionista e poi populista, che oggi piega verso il sovranismo.

E una sinistra non socialdemocratica, né verde, né cristiano-sociale: una “sinistra non più sinistra”, un ibrido che lentamente si è assestato su un generico progressismo dei diritti individuali. Gli elettori di sinistra respingono tale cambiamento genetico in cui affiorano sempre più elementi liberali e scompaiono quelli sociali, siano essi di origine socialista che cristiana.

Questo è il problema del Pd ma anche di tanti altri partiti di “sinistra” europei, alcuni dei quali scomparsi come il Ps francese, distrutto dall’aver assunto in toto il social-liberalismo.

Alla ricerca dell’identità

Per questo il Pd appare un incompiuto, non solo perché sprovvisto di identità ideologica (un problema generale della sinistra europea) ma per le sue “non decisioni”. Vediamo alcuni esempi recenti: sul reddito di inclusione/cittadinanza è rimasto ad un vago “si ma…”, dopo essere stato contrario.

Lo stesso reddito di inclusione fu accettato a fine legislatura quasi vergognandosene, dopo anni di insistenza dell’alleanza contro la povertà. Sullo ius soli/culturae/scholae si è limitato a “forse, ma non è il momento”: per il Pd non verrà mai il tempo.

Sui decreti sicurezza: giusto l’attacco a quelli Salvini (vecchi e nuovi) ma nessuna autocritica su quelli precedenti, che i decreti Salvini in buona sostanza ricopiano. Sulla questione accordi con la Libia: silenzio-assenso ancora oggi. Sulla lotta alla diseguaglianza indugi e molti silenzi (si cita papa Francesco ma lo si considera troppo estremo). Sull’ambiente idem. Sulla questione anziani (che lo voterebbero in massa) nessuna proposta.

Su quella giovani solo retorica (vi ricordate i millennial in segreteria?). Sulla legge elettorale “probabilmente la cambiamo ma non è sicuro…”, per poi cercare di dare la colpa ad altri. Su pace e guerra non ne parliamo nemmeno.  Insomma un’incompiuta perenne con l’aggravante di dare sempre ex post la colpa ad altri: all’ex segretario, allo scissionista di turno, all’alleato, a Calenda ecc.

Non si può fare politica senza mai prendersi responsabilità definitive: l’elettore non vota il “si ma”, il “forse”, il “quasi”… La politica dell’incompiuto Pd è basata sul “non facciamoci del male” e preserviamoci: non basta più. Tale atteggiamento ha fatto molto male al suo elettorato che si è ritirato nell’astensionismo: oggi gli astensionisti sono in stragrande maggioranza ex elettori di sinistra e segnatamente ex elettori Pd (li avete rivisti partecipare individualmente alla marcia per la pace del 5 novembre, convocati dalle associazioni). Si tratta di una domanda bruciante.

Oltre le correnti

Non è nemmeno vero che il problema stia a Roma nei capi-corrente: chi si è scontrato con loro sa che le correntine locali sono peggiori di quelle nazionali. Ci sono regioni in cui –andatevi a rileggere le liste elettorali- nemmeno Matteo Renzi ai suoi tempi poteva influire, figurarsi Bersani prima o Letta poi.

Anche l’abitudine del Pd di cambiare il segretario che ha perso un voto è dannosa: un leader si vede nei momenti della difficoltà. Bisogna saper resistere.

Ora come ora Enrico Letta non ha davvero un sostituto possibile perché garantisce il dialogo fra tutte le componenti: cosa accadrà poi? In ogni caso l’incompiuta Pd è nei contenuti più che nelle persone (non è inventando candidature slegate dalla concretezza del reale che si ottiene un risultato diverso: sarebbe troppo facile).

Il “ma anche”, il “forse” e l’attendismo hanno distrutto il Pd da tempo: la politica deve essere una scelta di campo fatta con coraggio. Su tema migratorio ad esempio ci sono stati continui cambi di posizione da parte della dirigenza: da discorsi aperturisti a pareri che ricopiavano la destra.

Oggi gli elettori Pd non saprebbero dire quale sia la posizione del partito sui migranti, sull’accoglienza, sull’integrazione ecc... Una caratteristica Pd è non tenere mai una linea fino in fondo, ma attenuare gradatamente fino a diventare incolori e insapori. Quando arriva uno che grida più degli altri, ci si allinea e contemporaneamente si sabota: alla fine cosa ci può capire l’elettore?

È tale incompiuto che diviene indigesto al momento del voto. L’altro aspetto critico è quello delle alleanze: il Pd non ha maturato una vera cultura della coalizione. Questo è vero al centro come in periferia. Lo sanno i tanti o i pochi che provano ad avvicinarsi al Pd come forze politiche (nazionali o locali): sono sempre respinti, guardati con sospetto o se ne tenta l’assimilazione. In questa maniera è andata creandosi attorno al Pd una specie di area radioattiva: chi tocca muore.

Ci si è puri illusi che tale repulsione fosse solo causata dall’”antipatico” Renzi, ma non è così. Ad esempio in queste ultime elezioni i Pd regionali o locali non hanno tenuto conto delle altre forze della lista “Italia democratica e progressista”, ignorandole del tutto alla presentazione dei candidati o agli eventi. In alcuni casi nemmeno il simbolo elettorale è stato esposto ma solo quello del Pd. Ciò dimostra che l’esperienza delle Agorà democratiche, malgrado il loro successo, non è passata nel corpo del partito.

L’apparato locale si chiude a riccio non solo quando è criticato ma anche quando un possibile alleato tende la mano. Ora si parla di grande rinnovamento ma si sta realizzando un congresso del solito tipo: né un congresso all’antica in cui si discute, ci si divide in mozioni e si litiga; né un agorà aperta ad altri. Si chiede soltanto l’adesione ad un percorso che porterà inevitabilmente alle primarie a cui già guardano i dirigenti Pd: sono interessati solo a quelle e non al dibattito.

Se discussione ci sarà, verrà incanalata nei consueti moduli personalistici. Quindi niente rinnovamento, soltanto cambio di segretario/a. È fin troppo facile preconizzare un declino senza freni. Un corpo che non reagisce più a nulla, se non a stimoli di pura sopravvivenza, soccombe al fuoco amico di chi lo provoca e lo attacca per distruggerlo, come fanno coloro che ne sono fuoriusciti o che l’hanno utilizzato come un taxi per farsi eleggere. Alle prossime regionali lombarde e laziali si sta andando a perdere senza nemmeno provare a resistere e senza confrontarsi: alle rispettive dirigenze interessa soltanto spartirsi in seggi di minoranza.

L’hanno già fatto in Umbria, Sicilia ecc. La domanda che la dirigenza del Pd dovrebbe porsi è dunque: perché mai rifiutarsi pervicacemente di trattare, discutere, elaborare con gli amici, con chi si avvicina con lealtà pur senza lasciarsi assimilare, con un mondo largo anche se frammentato, scegliendo invece di farsi imbambolare e intimidire da chi apertamente vuole la distruzione del partito? Perché accelerarne la fine?

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