Del partito unico fra Italia viva e Azione se ne riparla il prossimo lunedì 27 febbraio, quando è stato convocato il comitato politico del fu «Terzo Polo», nome che non piace più neppure a Carlo Calenda. Dopo l’insuccesso delle regionali, le tensioni fra le due forze politiche e soprattutto fra i due leader sono forti.

Ma in questione non è precisamente un dissenso sulla nascita del futuro partito unico. La questione è, come dice un vecchio bellissimo calipso cubano, «como, quando y donde» e cioè il dove, il quando e il dove. Ed è per questo che se ne riparla il 27, e non se n’è parlato il giorno dopo le regionali, quando i due piccoli eserciti alleati ma sbaragliati davano segnali di sfrangiamento e di morale sotto i tacchi.

La questione è semplice e sta in un ragionamento tutto politico che Matteo Renzi ha in testa da tempo, e che ha provato a spiegare al leader di Azione. Il quale alla fine si è rassegnato ad aspettare, non senza lasciare trapelare il suo malumore, sfumando gli ultimatum all’alleato temporeggiatore, che resta comunque un campione di tattica e di fiuto politico.

Il fatto è che il 27 febbraio è il giorno dopo il 26, e cioè il giorno dopo quello in cui i gazebo del Pd eleggeranno il successore di Enrico Letta. Renzi, come praticamente tutti, è certo che sarà Stefano Bonaccini, il vincitore indiscusso del congresso dei circoli. Lo sostiene da sempre apertamente, lo ha detto sin dallo scorso 17 gennaio al Senato, chiacchierando con i cronisti: «Bonaccini stravince. La Schlein non esiste, è un’operazione della gauche caviar».

Eppure resta, anche solo in via di ipotesi, un’esile possibilità che le cose non vadano così, e cioè che vinca la neodeputata movimentista. Per il Pd sarebbe uno scossone che porterebbe senza dubbio verso una nuova scissione, e stavolta sarebbe forse il colpo definitivo per il popolo democratico, almeno per come lo abbiamo conosciuto fin qui. 

Fra i “riformisti” sostenitori di Bonaccini c’è anche chi si è portato avanti con il lavoro, come Giorgio Gori, che ha spiegato che il partito di Schlein non sarebbe il suo partito. 

È stato subito rimbrottato da Lorenzo Guerini («Nessuno se ne deve andare»), capo dell’area Base riformista e silenziosissimo in tutta la campagna, un po’ perché è il presidente del Copasir, il comitato di vigilanza sui servizi segreti che in queste settimane è investito di ben altri problemi (fra cui la presenza del vice Giovanni Donzelli, su cui pende il parere del Gran Giurì sui suoi attacchi al Pd alla camera  sul caso Cospito), e un po’ per non rovinare il racconto di un Bonaccini libero dalle correnti contro una Schlein ipotecata dal vecchio gruppo dirigente Franceschini-Orlando-Zingaretti-Bettini. 

Riformisti democratici

Nessun riformista sta pensando di lasciare il Pd per il semplice fatto che nessuno pensa davvero che vinca Schlein. E tuttavia Renzi suggerisce, alla sua maniera, a Calenda di aspettare. Perché se per un capriccio dell’affluenza Schlein la spuntasse, il contraccolpo nell’area Bonaccini sarebbe fortissimo. E se non di una corrente in blocco, la migrazione di un gruppo-pilota dal Pd all’area del Terzo Polo sarebbe uno sbocco naturale, un segnale di tendenza.

Per questa eventualità, benché molto improbabile, sarebbe meglio, molto meglio, che gli eventuali transfughi non fossero costretti a rientrare in un partito di Renzi, l’ex segretario di cui sono stati accusati di essere in fondo rimasti sempre fan e talvolta agenti all’Avana. Meglio sarebbe mantenere la federazione.

E così l’eventuale diaspora riformista potrebbe un primo momento federarsi all’alleanza liberal-centrista, non da ospite ritardatario ma da terza gamba del Terzo Polo. Magari con una sigla che espliciti bene il posizionamento politico, come ad esempio «Riformisti democratici».

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