«Ha messo un piede importante nel Movimento, ma rimane uno del Pd». La battuta di un deputato dei Cinque stelle sintetizza la natura bifronte di uno dei ministri più discreti del governo Conte II, Stefano Patuanelli. Triestino, ingegnere, classe 1974, dopo la prima parte della legislatura passata a fare il capogruppo al Senato ha raccolto l’eredità dell’ex capo politico Luigi Di Maio al ministero dello Sviluppo economico. Un premio per le sue capacità di mediatore e l’immagine di politico competente che si è saputo costruire negli anni, fin dagli incontri meetup degli attivisti del Movimento nel 2005 e durante il periodo da consigliere comunale a Trieste dal 2011 al 2016.

Il Movimento

Anche in questi giorni complicati, le sue capacità di mediatore sono servite per mettere presso i gruppi parlamentari, soprattutto al Senato, dove nei mesi scorsi si sono consumate più tensioni, i binari che agevolassero le trattative a livelli più alti. Patuanelli è stato anche controparte pentastellata di Goffredo Bettini, l’esponente del Pd che nelle ultime settimane ha fatto da punto di convergenza per le diverse esigenze della maggioranza. «Si fa voler bene da tutti», dice lo stesso parlamentare, certificando che il ministro si è guadagnato un’autonomia di fatto dalla capacità accentratrice di Di Maio ma si tiene altrettanto lontano da altri gruppi movimentisti, come i dibattistiani. Certo, la sua traiettoria parallela lo ha portato molto vicino ad altre realtà, in cui secondo qualcuno potrebbe trovare una nuova appartenenza se il Movimento non gli garantisse più prospettive soddisfacenti.

Il ministero

Una parte della stima di cui gode da parte di colleghi e alleati deriva a Patuanelli dalla sua fama di politico competente, un pregio di cui non tanti Cinque stelle a capo di dicasteri hanno potuto vantarsi. Il grillino ha ereditato numerose vertenze da affrontare con una squadra di tecnici ministeriali totalmente rinnovata dall’intervento di Di Maio: chi si è seduto al tavolo con lui spiega però che le discussioni di merito sono corse tutte in parallelo ai canali ministeriali attraverso Cdp e Invitalia.

«Loro parlano la nostra lingua», dice un tecnico di una parte coinvolta in uno dei dossier. Sottinteso: il ministero non la parla. L’altro grande limite che diverse parti in causa imputano al ministro è quello dello scarso peso politico nel governo, con tutte le trattative che passano al ministero di Via Veneto solo in via preliminare e le decisioni finali che finiscono per essere prese a palazzo Chigi. «Perlomeno ascolta, ma di accordi non siamo riusciti a concluderne», dice uno degli interlocutori di Patuanelli. Se da un lato gli viene rimproverato di essere più sensibile alle istanze delle imprese che a quelle dei lavoratori, anche chi dovrebbe beneficiare di questo aspetto non è del tutto soddisfatto: «Al di là del suo impegno personale, purtroppo si ritrova a lavorare in un governo che, per chiunque faccia impresa non può che essere giudicato come fallimentare, perché non punta alla crescita, ma solo ai sussidi, al consenso», dice Stefano Ruvolo, presidente di Confimprenditori.

Come chiave per la soluzione di dossier di lungo corso, difficilmente Patuanelli propone altre strade se non l’intervento pubblico. Un posizionamento “a sinistra” che lo porta a chiedere va a braccetto con le garanzie occupazionali, per esempio nella vertenza Ilva ad Arcelor Mittal. Una scelta che non trova riscontro nella linea programmatica del Movimento, che non ha una linea unitaria sulla politica industriale. Una contrapposizione interna che si esplicita in episodi come quello di ottobre, quando in un incontro riservato il ministro ha presentato una prima bozza di piano del Recovery Fund: peccato che poi, tra task force e riunioni a palazzo Chigi, del progetto di Patuanelli non si sia più avuta notizia.

 

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